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mercoledì 16 marzo 2016

Dalla guerra all'Isis alle fusioni delle Borse (Francoforte e Londra), passando per il voto tedesco

Segnalo alcuni articoli che possono essere utili per riflettere sul presente e sul futuro. Verrebbe da dire che la notizia più importante è forse l'ultima (anche se rischia si passare un po' inosservata), quasi in controtendenza rispetto alla possibile "Brexit". 

Buona lettura

Francesco Maria

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Stiamo battendo l'ISIS?

A quasi due anni dalla sua proclamazione il Califfato in Siria e Iraq sembra finalmente costretto al declino e, anche se non è ancora possibile prevedere quando, alla sconfitta. Dopo aver retto per mesi all'offensiva congiunta della coalizione guidata dagli Usa, dell’esercito iracheno e delle milizie sciite, dei curdi siriani e iracheni, dell’esercito lealista di Assad (supportato da corpi scelti iraniani e dall’Hezbollah libanese) e della Russia, lo Stato islamico sembra ora avviato verso un inarrestabile sfaldamento. 
I territori sotto il suo controllo - già mutilati l’anno scorso dall'avanzata dei curdi siriani nel nord del Paese, dei curdi iracheni nell'area circostante Mosul e dell’esercito iracheno a Ramadi, Tikrit e nelle aree limitrofe (v. cartina 1) – sono ora insediati da offensive, cunei e teste di ponte nemiche in quasi tutti i settori strategicamente più importanti.(...)

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Inizia la spartizione della Siria?

Le autorità curde del Rojava, il Kurdistan siriano, hanno annunciato il passaggio a “entità federale” della nuova Siria dei tre cantoni sotto il loro controllo. Il passaggio avverrà su decisione di una assemblea che riunirà le diverse rappresentanze politiche ed etniche della regione, in particolare curdi e arabi. La nascita della prima entità federale può essere il preludio di una nuova Siria, divisa fra curdi, alawiti e sunniti. (...)

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Intervista a Mario Monti su voto tedesco e Europa

(...) Sta dicendo che il solco fra Europa del Nord e del Sud si potrebbe allargare ancora, è così?  
«Le faccio un esempio: la posizione dell’Austria sull'immigrazione è pericolosissima, e per fortuna è avversata da Germania e Italia insieme. Ma di fronte a evoluzioni pericolose, come un ulteriore rafforzamento dell’AfD, nell'Europa centro-settentrionale si potrebbe far largo l’idea di considerare l’Europa del Sud come una “quasi Europa” più che come parte integrante dell’Europa vera. Dobbiamo essere attenti a restare in ogni istante, con le parole e con i fatti, in una posizione di leadership credibile e rispettata. A non dare il minimo alibi a chi ha pregiudizi verso di noi».  
 Lei preferirebbe un asse Italia-Germania piuttosto che Italia-Francia. Non è così?  
«Non sono mai stato un sostenitore degli assi a 360 gradi. L’Italia, che dalla primavera 2013 è l’unico Paese dell’Europa del Sud (inclusa la Francia) a non essere sotto procedura per deficit eccessivo, ha tutto l’interesse a stare al fianco della Germania nell'esortare la Francia a una maggior disciplina di bilancio e alle riforme. Allo stesso tempo deve spingere la Germania ad avere una visione più ampia della sua politica economica, riducendo l’enorme surplus commerciale».

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La nuova destra tedesca

(...) Eppure, secondo l'AfD i migranti in arrivo sarebbero troppi per quelle che sono le capacità tedesche di medio-lungo termine, sia in termini finanziari, sia in termini di tenuta sociale: da un lato l'accoglienza costa e rischia di determinare un ridimensionamento del welfare state per i cittadini tedeschi, dall'altro la sospensione temporanea del sistema di Dublino impedisce un'identificazione dei migranti al di fuori dal territorio tedesco.
Questi messaggi, semplici ed efficaci, non sono condivisi da minoranze violente e ai margini della società. L'elettorato dell'AfD non corrisponde a quello del partito nazionaldemocratico (NPD). Se così fosse, i numeri dell'Alternative sarebbero probabilmente molto più contenuti. Al contrario, come dimostrano i dati sui flussi diramati dalla tv pubblica tedesca, l'AfD è un partito populista che ha tutte le carte in regola per diventare popolare. A sostenerla ci sono tedeschi di estrazione borghese e liberale, ex elettori di CDU/CSU ed FDP, ma anche cittadini che, ad Est, hanno sempre votato a sinistra. Si tratta in buona sostanza di conservatori che temono quello che l'ex-Presidente del Senato, Marcello Pera, ideatore nel 2006 del manifesto “Per l'Occidente”, avrebbe chiamato il “meticciato culturale” prodotto dall'immigrazione, in particolar modo di matrice musulmana.
In questo senso, l'AfD è l'ennesimo prodotto della German Angst, la paura tedesca per l'ignoto e per ciò che non può essere adeguatamente programmato o controllato. Ma l'AfD è anche l'unico partito in grado di intercettare un diffuso malcontento, quello che in Germania si usa chiamare Politikverdrossenheit, nei confronti dell'establishment, in particolar modo verso la classe politica dei due grandi partiti popolari al governo, sentimento niente affatto circoscritto alla realtà italiana, bensì comune a tutto il mondo occidentale. In Renania-Palatinato il 62%, e in Sassonia-Anhalt il 64% degli elettori dell'AfD hanno scelto l'Alternative non per convinzione, ma per delusione nei confronti dei partiti tradizionali, in Baden-Württemberg addirittura il 70%. Fino al 2012-2013 erano i Piraten la forza chiamata a colmare parzialmente questo vuoto (...)

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Accordo fra la Borsa di Francoforte e la Borsa di Londra

È cosa fatta l’accordo fra la Borsa di Francoforte e la Borsa di Londra per una fusione quasi alla pari. Gli attuali azionisti del London Stock Exchange, riporta Bloomberg, avranno circa il 45,6% del nuovo gruppo mentre quelli di Deutsche Borse circa il 54,4%. Borsa Italiana rientra o nell'operazione in quanto parte del gruppo Lseg. La nuova società manterrà le sue sedi a Londra e Francoforte. I due soggetti rimarranno soggetti alle imposte dei rispettivi Paesi di costituzione. Le sinergie di costo sono previste in 450 milioni di euro per anno, e saranno completate in tre anni. (...)

venerdì 11 settembre 2015

Salvare Assad? (rassegna stampa)

Di seguito un ottimo Alberto Negri, e altri interessanti articoli sulla difficile questione siriana, che l'arrivo di profughi ha riproposto al centro dell'agenda politica europea. 

"Salvare" Assad è il male minore, di fronte all'avanzata del Califfato? Può darsi, ma in ogni caso qualunque ipotesi di "soluzione" deve mettere nel conto un lungo periodo di gestazione, e un alto tasso di contraddittorietà e precarietà. 

Già essere consapevoli dei tempi non brevi che sono richiesti da questo scenario (come anche da quello libico) sarebbe un primo passo verso un'azione più incisiva.

Francesco Maria Mariotti

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Nessuno ama Bashar Assad, neanche i russi e neppure gli iraniani: ma oggi appare il male minore, unica alternativa alla vittoria dei jihadisti. Non per questo Mosca, rafforzando il suo sostegno militare a Damasco, intende far esplodere la terza guerra mondiale, come sembrava sfogliando ieri le prime pagine di alcuni giornali. Anzi la Russia, insieme all’Iran sciita, ha intuito che Assad non può vincere la guerra, e che serve trovare un compromesso per la transizione. Questo era il senso dell’offerta del Cremlino di costituire un coalizione internazionale contro lo Stato Islamico: ma è stata sdegnosamente respinta, come se qui dalle nostre parti avessero la soluzione in tasca. (...)
Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia continuano a sostenere che Assad se ne deve andare e allo stesso tempo dichiarano che vogliono colpire i jihadisti dello Stato Islamico. Ma è evidente che non si può combattere il Califfato e allo stesso tempo il suo avversario. A meno che Londra e Parigi non intendano comportarsi come la Turchia di Erdogan che con il pretesto della guerra al Califfato bombarda sistematicamente dei curdi, i più strenui nemici dei jihadisti. La comunità internazionale sembra colpita da una sorta di sdoppiamento della personalità che determina comportamenti fortemente contraddittori di fronte all’Isis e a quanto accade nel Mediterraneo. (...)
È questo uno dei motivi chiave perché le iniziative militari anti-Isis hanno avuto scarso successo: alla guerra degli occidentali manca l’obiettivo politico. François Hollande afferma che Assad se ne deve andare ma il presidente francese non ha la minima idea di chi mettere al suo posto, a meno di non volere riciclare i jihadisti che vuole combattere e consegnargli la Siria. Così come non si sapeva con chi sostituire Saddam nel 2003 e Gheddafi nel 2011. L’impressione è che gli Stati e l’Occidente non siano ancora usciti dalla macchina infernale delle guerre senza senso innescata dagli attentati dell’11 settembre 2001: l’anniversario di oggi dovrebbe indurci a qualche riflessione.

di Alberto Negri - Il Sole 24 Ore - leggi su La guerra all’Isis non sarà la terza guerra mondiale

(...) Cosa fare, allora? Basta leggere le dichiarazioni del presidente francese Hollande per capire che si pensa a intensificare l’intervento armato. Quello che non è chiaro è come farla finita con Assad e come affrontare l’Isis. Il drammatico bilancio degli interventi internazionali in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003 sono sotto gli occhi di tutti. Isis stesso è un problema che nasce tra le fila degli ex dirigenti del regime di Saddam. L’intervento a supporto dell’insurrezione in Libia, ha lasciato dietro di sé una devastante guerra per bande. In tutti e tre i casi citati, non si è mai lavorato a un reale progetto post-bellico e il rischio che si corre adesso è che nella corsa alla guerra, ancora una volta, si perda di vista l’obiettivo: rendere quella regione del mondo un posto sicuro. Restando lucidi, per non farsi travolgere dalla necessità di accorpare coalizioni in fretta e furia, magari pagando cambiali a paesi come la Turchia e l’Arabia Saudita che profittano del momento per regolare i loro conti, rispettivamente con i curdi e con gli insorti filo iraniani in Yemen.
La chiave è mettere Assad fuori dalla storia, arrivando a un accordo con i suoi alleati. Senza Iran e Hezbollah, Damasco è finita. L’accordo sul nucleare tra Washington e Teheran potrebbe essere davvero il punto di svolta di questa crisi. Prima di concludere, deve essere preteso che l’Iran giochi un ruolo ‘trasparente’ nel conflitto siriano, per lavorare a una vera exit strategy che deve iniziare – ad esempio – dal fermare l’aviazione del regime e le sue criminali barrel bomb. Sostenendo un nuovo governo a Damasco, nato dalla condivisione di tutte le anime dell’insurrezione e della società civile siriana, e non pretendendo di sceglierlo a Washington o a Bruxelles, lavorando allo stesso tempo sulla situazione in Iraq, con l’elemento curdo che – piaccia o no al presidente turco Erdogan – ha preso un ruolo importante, affrontare tutti assieme le colonne di Isis.
Che sono molto meno imbattibili di quello che si vuole raccontare. Perché iniziare subito un’operazione razionale di intervento sulle fonti di finanziamento del gruppo darebbe risultati immediati. Almeno quanto aprire un tavolo di confronto ad alto livello e transnazionale con le figure più influenti della galassia sunnita in Siria e in Iraq per uscire dalla trappola del risentimento settario. Perché bombardare e basta aumenterà le vittime civili. E questo, come dimostrano gli ultimi quindici anni, finisce solo per rafforzare i radicali.


Bashar Assad era ancora un bimbo quando i russi hanno aperto la loro prima base a Tartus. Era il 1971, allora i siriani decisero di concedere l’uso di un punto d’appoggio logistico per le navi di Mosca. Uno scalo, neppure troppo grande, ma importante. E non lo hanno mai abbandonato. Oggi moli e gru fanno parte del piano lanciato da Vladimir Putin per sostenere Damasco. Un programma che poggia su tre pilastri per il momento irrinunciabili in quanto necessari a tutelare gli Assad e gli interessi del Cremlino. Visione che geograficamente trova il punto di sintesi nel cosiddetto corridoio di Latakia, che parte dalla costa e va verso Est, come nel cantone alawita, che scende verso Sud. Davanti il nemico. La miriade di formazioni ribelli e l’Isis che il regime non ha mai considerato come il target primario.
Molti rifugiati vengono dalla Siria, dove ora operano sul terreno anche i consiglieri militari russi. Non teme il rischio di una ulteriore escalation militare?
«In Siria non esiste una soluzione militare. Stanno combattendo da quattro anni e mezzo, sono morte oltre 250.000 persone, ci sono 4 milioni di rifugiati e 12 milioni di esseri umani colpiti dagli effetti della guerra. Sollecito una soluzione attraverso il dialogo politico, sulla base del comunicato di Ginevra del giugno 2012, e l’unità dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Col mio inviato Staffan de Mistura abbiamo proposto di creare gruppi di lavoro per la sicurezza, la situazione militare, la riconciliazione, lo sviluppo, le infrastrutture, le questioni politiche e costituzionali. È il tentativo di allargare lo spazio politico, per risolvere la crisi con lo strumento del dialogo».


È una vittoria per Obama. Un trionfo anzi. A consegnarlo al presidente i democratici che al Senato hanno bloccato una mozione presentata per respingere l’accordo sul nucleare iraniano. Questa volta hanno fatto muro e hanno aperto la strada per rendere realtà l’accordo negoziato con Teheran, consentendo a Barack Obama di evitare la sfida al Congresso attraverso il veto presidenziale.
Si è trattato di una votazione cosiddetta procedurale, che richiedeva un minimo di 60 voti per consentire alla mozione (Resolution of Disapproval) di procedere verso una ulteriore votazione finale. I voti a favore sono stati però soltanto 58, con 42 contrari, il testo è stato così bloccato e il promesso showdown tra Congresso e Casa Bianca sventato.
Premiati gli sforzi del presidente: Obama su questo accordo ci ha messo la faccia, letteralmente. Ha di persona guidato una campagna a tutto campo per assicurarsi e assicurare che i due anni di negoziati del cosiddetto gruppo 5+1 con Teheran non sarebbero stati vani. (...)

lunedì 23 dicembre 2013

La lezione inglese sul lavoro (Corriere.it)

(...) Gli Stati Uniti di Obama e il governo Cameron offrono infatti due modelli quasi speculari di come affrontare la sfida dell’occupazione dal punto di vista politico-strategico. Nel settembre 2011, Obama annunciò con la grancassa un piano molto ambizioso (chiamato, appunto, American Jobs Act : attenzione al plurale) per creare milioni di nuovi posti di lavoro.

I piatti forti del pacchetto erano la riforma dell’assicurazione contro la disoccupazione, crediti d’imposta per le nuove assunzioni, riduzione dei contributi sociali, un programma di investimenti straordinari in infrastrutture, incentivi per le piccole imprese.
Il provvedimento sarebbe costato circa 450 miliardi di dollari: una cifra molto elevata, ma grazie alla quale, secondo il presidente, «milioni di americani sarebbero tornati al lavoro e sarebbero arrivati più soldi nelle tasche di tutti i lavoratori».
Proprio per i suoi costi e per le sue eccessive ambizioni il progetto si impantanò immediatamente all’interno del Congresso e alla fine Obama si è dovuto accontentare di poco: qualche incentivo fiscale per i nuovi assunti e un nuovo schema per finanziare le piccole imprese.
Il Regno Unito ha seguito un metodo diverso per affrontare il tema lavoro: non un «Masterplan» onnicomprensivo e radicale, ma una serie di Employment Reviews (revisioni delle politiche per l’impiego), volte a realizzare concretamente tre obiettivi strategici fissati da un conciso documento ad inizio legislatura: flessibilità, efficienza, equità. In questo modo sono state però introdotte varie misure innovative.
Muovendosi in largo anticipo rispetto alle raccomandazioni Ue, lo Youth Contract («contratto giovani») ha ad esempio offerto in due anni 500 mila opportunità di lavoro o formazione a giovani fra i 18 e i 24 anni, mentre il Workprogramme («Programma lavoro»), introdotto nel 2011, ha aiutato oltre 200 mila disoccupati di lungo corso a ritrovare lavoro.
Sul piano della strategia politica, la differenza fra il modello americano e quello inglese è chiarissima. Obama voleva far colpo con un progetto «di rottura», in vista della campagna per la rielezione che avrebbe preso avvio all’inizio del 2012.
Il Congresso ha bocciato gran parte del Jobs Act , ma Obama ha vinto le elezioni, anche grazie ai suoi annunci sul fronte del lavoro. Forte del successo elettorale e del patto di coalizione, il governo Cameron-Clegg ha scelto un approccio meno roboante, ma più efficace in termini di risultati, ponendosi in un orizzonte di legislatura.(...)

mercoledì 12 dicembre 2012

Le scuse di Cameron per Pat Finucane (ilPost)


Il primo ministro britannico David Cameron ha tenuto un discorso alla Camera dei Comuni in cui ha chiesto ufficialmente scusa alla famiglia di Pat Finucane, un avvocato ucciso a Belfast, in Irlanda del Nord, nel 1989. Cameron ha ammesso che nell’assassinio di Finuncane, realizzato dall’Ulster Defence Association, un’organizzazione terroristica nordirlandese contraria all’indipendenza dal Regno Unito, ci fu un coinvolgimento di poliziotti e soldati.
Cameron ha commentato i risultati di un’inchiesta governativa svolta dall’avvocato Desmond de Silva: ha denunciato uno «scioccante livello di cospirazione» nell’omicidio e una «inaccettabile» cooperazione tra le forze di sicurezza e i terroristi. Ha anche detto che con ogni probabilità è stato un funzionario o più di uno del Royal Ulster Constabulary, la polizia dell’Irlanda del Nord, a proporre Finucane come obiettivo per i terroristi. Cameron però ha negato l’esistenza di un complotto più vasto e di una strategia organizzata per usare i terroristi contro gli irlandesi favorevoli all’indipendenza.
http://www.ilpost.it/2012/12/12/le-scuse-di-cameron-per-pat-finucane/