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mercoledì 11 aprile 2018

Facebook e la guerra di potere (C.Blengino, ilPost)

In attesa che la tensione internazionale attorno alla Siria si concretizzi (forse già nelle prossime ore?) in una qualche azione dai contorni probabilmente "ambigui" (come sempre più spesso avviene nelle guerre, si inizia, non si sa come si continua, si fa qualcosa per non stare fermi, si osa ma non fino all'inverosimile; in questo senso queste crisi mettono sempre più in evidenza una sorta di "impotenza generalizzata" che confina, nella pratica, con una ricerca di "non-vittoria" per nessuna delle parti, di cui già in passato abbiamo avuto segni), si può guardare a un'altra partita, per certi aspetti più "vicina" e forse non mano importante.

Segnalo in questo senso una riflessione, apparsa sul Post, che mi pare centrare meglio di altre  - sia pure in termini che naturalmente possono e devono essere discussi - la questione sottostante la battaglia attorno agli scandali su Facebook e social network in generale.

Buona lettura

Francesco Maria Mariotti

***

"Parto da lontano, da un articolo apparso su The Foreign Affairs oltre 30 anni fa a firma George P. Shultz, all’epoca Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America.
L’articolo dal titolo Shaping American Foreign Policy: New Realities and New Ways of Thinking è del 1985: c’era Reagan e la guerra fredda e il termine social network era probabilmente relegato in qualche libro di sociologia; non c’era il web e dunque non c’era ciò che oggi i più identificano con internet, ma internet c’era e c’erano i computer.

Nella parte finale dello scritto (la parte V) Shultz lega le politiche neoliberiste della presidenza Reagan a quello che appariva, in America, come l’onda impetuosa della società dell’informazione: la rivoluzione digitale e il neoliberismo della “reaganomics” sarebbero diventate la più temibile arma di espansione degli Stati Uniti nel mondo.(....)

Nel 1985 (in realtà sin dagli anni ‘60) in America avevano ben chiaro che la rivoluzione digitale sarebbe stata una questione non solo tecnologica, di efficienza e di mercato, ma soprattutto una questione di potere. Avevano chiaro che con internet, disporre e controllare grandi quantità di dati e possedere capacità di calcolo sarebbe diventata un’arma globale in grado di erodere e modificare i centri del potere, economico e statuale.

La scelta di delegare questo potere alle proprie imprese commerciali liberando e sfruttando il loro potenziale grazie all’architettura aperta della rete è stata una scelta politica, lucida e consapevole. E vincente.
Non ci si può stupire oggi del ruolo che Facebook, Google ed in generale delle tech company americane esercitano in Europa e non solo. Capire il valore delle tecnologie digitali voleva dire sin dall’origine cogliere se non l’esistenza di un nuovo potere, certamente intuire la profonda mutazione nell’esercizio del potere, tanto economico quanto sociale. I nostri politici temo non l’abbiano capito neanche oggi, mentre starnazzano contro Facebook.

Buona parte del manifesto di Shultz si è realizzata.

L’Europa ha commesso esattamente l’errore preconizzato nell’articolo: negli ultimi trent’anni, per ragioni astrattamente condivisibili, dalla tutela della proprietà intellettuale alla (parziale e inefficace) protezione dei dati personali sino alle politiche fiscali, si è da subito tentato di governare e regolamentare il flusso di dati e contenuti, e nel far ciò si è ottenuto un unico risultato: deprimere e comprimere le imprese europee che operano sul web avvantaggiando le imprese statunitensi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

La colonizzazione di quel territorio globale che è l’infosfera si è realizzata come pianificato e quella “sfida al concetto stesso di sovranità nazionale ed al ruolo dei governi nella società” preconizzata da Shultz oltre 30 anni fa emerge evidente nello schizofrenico dibattito su fakenews e propaganda, sui giganti del web, su Facebook nel caso Cambridge Analytica ed in generale sul ruolo dei social network e dei BigData.

Dove Shultz ha sbagliato è nell’ottimistica previsione del “dilemma del dittatore”, nella visione di internet come salvifico veicolo di democrazia.

Gli stati autoritari, liberi da vincoli costituzionali, hanno infatti colto meglio e prima di altri le opportunità di propaganda e controllo di massa offerti dalla rete e dalla digitalizzazione, sfruttando efficacemente il potere dei dati per consolidare i loro regimi. Non è un caso se sul tema della disinformazione aleggia sempre, a torto o a ragione, lo spettro di Putin.

Gli stati democratici si stanno organizzando, ma soffrono inevitabilmente di maggiori vincoli. 

Il potere conferito dalla rivoluzione digitale, ben chiaro a Shultz, è saldamente nelle mani (rectius, nei server e nelle macchine) delle imprese commerciali (prevalentemente statunitensi) ed è un potere ben superiore a quanto ipotizzabile nel 1985, prima che il web, gli smartphone e l’internet delle cose producessero la capillare digitalizzazione delle nostre vite e la capacità di calcolo raggiungesse l’attuale potenza.

Oggi la stessa delega di potere scientemente conferita dal governo degli Stati Uniti alle proprie imprese vacilla.
L’immagine dei rappresentanti di Facebook, Twitter e Google in piedi che giurano davanti alla Commissione del Senato USA nel 2017 per il Russiagate ne è forse la rappresentazione più evidente: anche negli USA qualcosa sta cambiando.

E il fatto che la guerra alle grandi piattaforme sia esplosa, anche in America, sul tema artefatto e strumentale delle fakenews la dice lunga.

Stiamo assistendo da tempo, e in questi giorni con toni parossistici nei confronti di Facebook, ad una guerra di potere che temo abbia poco o nulla a che fare con la difesa dei diritti fondamentali dei cittadini.
Gli Stati stanno solo tentando di controllare e sfruttare i medesimi dati abilmente generati e “lavorati” dalle tech company per fini commerciali e di recuperare un divario di potere che loro stessi, più o meno consciamente, hanno generato.(...)"


domenica 22 marzo 2015

Unioni civili, una nuova sfida (Mara Carfagna su HuffingtonPost)

Interessante articolo di Mara Carfagna.

Continuo a pensare che su questo tema ci sia - già oggi -un consenso generale su una "legislazione minima ma efficace" che potrebbe portare effettivi diritti, al di là dei "nomi" che vogliamo dare (matrimonio, unione civile, etc), a tutte le donne e tutti gli uomini di questo paese.


FMM



"(...) Tutto questo è in contrasto con la tutela della famiglia naturale fondata sul matrimonio? Personalmente, non credo. Come donna di destra, credo invece che sia compito della politica dare forma ai cambiamenti della società stabilendo le regole e il perimetro di un sistema condiviso di diritti e doveri. Come donna di destra ritengo che la famiglia fondata sul matrimonio vada difesa e sostenuta, ma ritengo che chi usa questa argomentazione come alibi per non affrontare il tema delle coppie gay, lo fa strumentalmente o in mala fede. Veramente si crede che riconoscere diritti a chi non ne ha, e farlo all'interno di un perimetro ben definito che non preveda equiparazione tra coppie gay e matrimonio omosessuale, significhi compromettere la solidità e la centralità della famiglia? Sul serio si pensa che non regolare una realtà già così ampiamente diffusa sia un modo per difendere la famiglia?
La famiglia va sostenuta fiscalmente, economicamente, per esempio aiutando le donne e le mamme che lavorano e che spesso non fanno figli perché non hanno un welfare adeguato. La famiglia si aiuta offrendo opportunità ai giovani affinché abbiano la possibilità di immaginare un futuro, in cui anche loro un giorno potranno diventare madri e padri.
Ma pensare che regolamentare ciò che già esiste, significhi produrre un attacco alla famiglia è un modo un po' superficiale per affrontare la questione con le lenti dell'ideologia e del pregiudizio.

Dire, sostenere, io sono di destra, quindi sono a favore della famiglia e contro le unioni gay è come arrendersi ad essere fermi al medioevo della politica. E noi non vogliamo arrenderci, vogliamo accettare la sfida della modernità, ma senza cedimenti e rispettando i nostri valori,quelli di un centrodestra moderno, liberale ed europeo.

Riguardo alle coppie omoaffettive l'Italia ha finora fallito. Abbiamo davanti una realtà, ancorché minoritaria - l'esistenza di unioni stabili tra persone dello stesso sesso - ma a differenza di tutto il resto d'Europa l'abbiamo ignorata. Abbiamo fatto finta che non esistesse. Abbiamo lasciato questa realtà nel vuoto legislativo, che è la peggiore delle condizioni proprio perché alimenta equivoci, abusi, distorsioni e problemi ai singoli e alle Istituzioni.(...)

domenica 22 dicembre 2013

Il Pericoloso Passo Indietro della Spagna

Era forse inevitabile che la crisi economica trascinasse nella sua spirale, oltre ai diritti sociali (cosa amara, ma in qualche modo comprensibile, in quanto diritti necessariamente "economici"), anche i diritti civili dati come acquisiti. 

La scelta della Spagna - che in un certo senso aveva modernizzato quasi "in eccesso", con la politica di Zapatero che segnava un'avanguardia (forse poco elaborata e condivisa) su questo fronte - di tornare indietro su un tema come l'aborto segna un passaggio pericoloso, per vari motivi che provo a spiegare.

1. Sul merito della questione giova ripetere quanto già detto e documentato migliaia di volte, da più parti: restringere le condizioni dell'aborto legale non servirà a diminuire realmente l'entità del fenomeno e sposterà nella clandestinità l'interruzione di gravidanza. Ci sono fenomeni che attengono alla sfera privata della vita delle persone che non possono essere regolati con troppa severità o minuziosità dallo Stato. Sono materie che è inevitabile lasciare all'autonomia delle persone. 

Non si discute del fatto che l'aborto sia un dramma; e può essere tristemente vero che rendere praticabile l'aborto legalmente rischi di renderlo "più facile" anche per persone inconsapevoli, o in casi che potrebbero essere gestiti diversamente.

Ma non c'è scelta, ed è forse questo che sembra non accettabile, per alcuni: bisogna fidarsi delle donne. L'alternativa è secca e pericolosa, ed è appunto la clandestinità e l'ipocrisia: il valore declamato nella legge, ma rischiosamente (per la salute e la vita delle donne, soprattutto) contraddetto nella pratica silenziosa e sotterranea.

2. Quanto più la politica sembra incapace di regolare le questioni economiche, tanto più si cerca di retrocedere (o avanzare, anche) sul piano di questioni cosiddette "etiche"; quasi a voler rimarcare una "sovranità perduta", lo Stato tenta di regolare la società anche in campi in cui il regolamento rischia di essere più dannoso che positivo

Questo può accadere, in teoria, anche con scelte "progressiste": la sinistra spesso dà l'impressione di maneggiare queste tematiche "a surroga" di una perduta capacità della propria parte di incidere sulle questioni sociali.

Beninteso: le questioni civili hanno una ricaduta, e forte, anche sullo status economico e sociale delle persone, naturalmente. Quindi sulla loro effettiva eguaglianza e libertà. E anche in questo senso il passo indietro della Spagna sembra pericoloso, perché di fatto rende la donna meno libera.

Ciò detto, vale la pena soffermarsi sul fenomeno più generale, e che la svolta della Spagna sembra confermare: una politica impotente nei fatti crudi dell'economia non cerca nuove soluzioni, ma "alza la voce" - e la spada del diritto - su questioni che - in ultimo - non potrà mai pienamente controllare, rendendo banalmente più difficile - e più sofferente - la vita ai cittadini.

3. Rischio "imitazione". L'Italia non è la Spagna, e il lungo processo che ha portato alla legge 194 forse ha creato un buon sostrato culturale, in grado di "assorbire" la tentazione di "revanscismo" su questo fronte. Ma anche in questo caso, una retorica mal dosata - e mal pensata - di "rientriamo nei ranghi" rivolto alle scelte di progresso degli anni '70 (magari collegandole impropriamente a altre scelte non sempre felici di quegli anni) - può essere una pericolosa arma di seduzione per una politica troppo incline agli slogan.

"It's the Economy, stupid", era lo slogan degli anni di Clinton. Prima la politica tornerà a guardare - con concretezza ed umiltà - a ciò che è possibile e realizzabile in quel campo, meno toccheremo con inefficaci regole le vite delle persone; solo così daremo ai cittadini i mezzi per decidere - da soli - della loro vita (e della loro morte) e di come trovare la loro felicità.