In attesa che la tensione internazionale attorno alla Siria si concretizzi (forse già nelle prossime ore?) in una qualche azione dai contorni probabilmente "ambigui" (come sempre più spesso avviene nelle guerre, si inizia, non si sa come si continua, si fa qualcosa per non stare fermi, si osa ma non fino all'inverosimile; in questo senso queste crisi mettono sempre più in evidenza una sorta di "impotenza generalizzata" che confina, nella pratica, con una ricerca di "non-vittoria" per nessuna delle parti, di cui già in passato abbiamo avuto segni), si può guardare a un'altra partita, per certi aspetti più "vicina" e forse non mano importante.
Segnalo in questo senso una riflessione, apparsa sul Post, che mi pare centrare meglio di altre - sia pure in termini che naturalmente possono e devono essere discussi - la questione sottostante la battaglia attorno agli scandali su Facebook e social network in generale.
Buona lettura
Francesco Maria Mariotti
***
"Parto da lontano, da un articolo apparso su The Foreign Affairs oltre 30 anni fa a firma George P. Shultz, all’epoca Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America.
L’articolo dal titolo Shaping American Foreign Policy: New Realities and New Ways of Thinking è del 1985: c’era Reagan e la guerra fredda e il termine social network era probabilmente relegato in qualche libro di sociologia; non c’era il web e dunque non c’era ciò che oggi i più identificano con internet, ma internet c’era e c’erano i computer.
Nella parte finale dello scritto (la parte V) Shultz lega le politiche neoliberiste della presidenza Reagan a quello che appariva, in America, come l’onda impetuosa della società dell’informazione: la rivoluzione digitale e il neoliberismo della “reaganomics” sarebbero diventate la più temibile arma di espansione degli Stati Uniti nel mondo.(....)
Nel 1985 (in realtà sin dagli anni ‘60) in America avevano ben chiaro che la rivoluzione digitale sarebbe stata una questione non solo tecnologica, di efficienza e di mercato, ma soprattutto una questione di potere. Avevano chiaro che con internet, disporre e controllare grandi quantità di dati e possedere capacità di calcolo sarebbe diventata un’arma globale in grado di erodere e modificare i centri del potere, economico e statuale.
La scelta di delegare questo potere alle proprie imprese commerciali liberando e sfruttando il loro potenziale grazie all’architettura aperta della rete è stata una scelta politica, lucida e consapevole. E vincente.
Non ci si può stupire oggi del ruolo che Facebook, Google ed in generale delle tech company americane esercitano in Europa e non solo. Capire il valore delle tecnologie digitali voleva dire sin dall’origine cogliere se non l’esistenza di un nuovo potere, certamente intuire la profonda mutazione nell’esercizio del potere, tanto economico quanto sociale. I nostri politici temo non l’abbiano capito neanche oggi, mentre starnazzano contro Facebook.
Buona parte del manifesto di Shultz si è realizzata.
L’Europa ha commesso esattamente l’errore preconizzato nell’articolo: negli ultimi trent’anni, per ragioni astrattamente condivisibili, dalla tutela della proprietà intellettuale alla (parziale e inefficace) protezione dei dati personali sino alle politiche fiscali, si è da subito tentato di governare e regolamentare il flusso di dati e contenuti, e nel far ciò si è ottenuto un unico risultato: deprimere e comprimere le imprese europee che operano sul web avvantaggiando le imprese statunitensi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
La colonizzazione di quel territorio globale che è l’infosfera si è realizzata come pianificato e quella “sfida al concetto stesso di sovranità nazionale ed al ruolo dei governi nella società” preconizzata da Shultz oltre 30 anni fa emerge evidente nello schizofrenico dibattito su fakenews e propaganda, sui giganti del web, su Facebook nel caso Cambridge Analytica ed in generale sul ruolo dei social network e dei BigData.
Dove Shultz ha sbagliato è nell’ottimistica previsione del “dilemma del dittatore”, nella visione di internet come salvifico veicolo di democrazia.
Gli stati autoritari, liberi da vincoli costituzionali, hanno infatti colto meglio e prima di altri le opportunità di propaganda e controllo di massa offerti dalla rete e dalla digitalizzazione, sfruttando efficacemente il potere dei dati per consolidare i loro regimi. Non è un caso se sul tema della disinformazione aleggia sempre, a torto o a ragione, lo spettro di Putin.
Gli stati democratici si stanno organizzando, ma soffrono inevitabilmente di maggiori vincoli.
Il potere conferito dalla rivoluzione digitale, ben chiaro a Shultz, è saldamente nelle mani (rectius, nei server e nelle macchine) delle imprese commerciali (prevalentemente statunitensi) ed è un potere ben superiore a quanto ipotizzabile nel 1985, prima che il web, gli smartphone e l’internet delle cose producessero la capillare digitalizzazione delle nostre vite e la capacità di calcolo raggiungesse l’attuale potenza.
Oggi la stessa delega di potere scientemente conferita dal governo degli Stati Uniti alle proprie imprese vacilla.
L’immagine dei rappresentanti di Facebook, Twitter e Google in piedi che giurano davanti alla Commissione del Senato USA nel 2017 per il Russiagate ne è forse la rappresentazione più evidente: anche negli USA qualcosa sta cambiando.
E il fatto che la guerra alle grandi piattaforme sia esplosa, anche in America, sul tema artefatto e strumentale delle fakenews la dice lunga.
Stiamo assistendo da tempo, e in questi giorni con toni parossistici nei confronti di Facebook, ad una guerra di potere che temo abbia poco o nulla a che fare con la difesa dei diritti fondamentali dei cittadini.
Gli Stati stanno solo tentando di controllare e sfruttare i medesimi dati abilmente generati e “lavorati” dalle tech company per fini commerciali e di recuperare un divario di potere che loro stessi, più o meno consciamente, hanno generato.(...)"
Nessun commento:
Posta un commento