Lo scandalo Datagate, come bel argomentava il pezzo di Venturini sul Corriere, sa di grande ipocrisia. Già scritto, e riprendo solo per accorciare l'argomentazione: "L'indagine dei dati web (...) è un'arma potentissima di prevenzione a cui probabilmente è impossibile rinunciare (come è impossibile rinunciare alla bomba atomica, in campo più strettamente militare, in un certo senso)".
Ora, al netto dei grandi proclami, inevitabili per "salvare la faccia", sarebbe necessario capire cosa si intende quando si propone di "regolamentare" l'attività di spionaggio fra gli alleati, che sempre c'è stata e sempre ci sarà. Difficile pensare che possa esserci un galateo pienamente condiviso, perché inevitabilmente lo stato che avrà a disposizione più tecnologia farà in modo di utilizzarla; e non c'è "giudice terzo" che possa decidere il contrario, e soprattutto imporlo.
Forse è anche il caso di non dimenticare che abbiamo "scoperto" (si fa per dire) che gli Stati Uniti ci spiano, ma rischiamo di dimenticarci che il gioco viene portato avanti anche da paesi che non sono propriamente alleati, e che hanno interessi in netto contrasto con i nostri. E in quesi paesi non è permessa una libera discussione sull'intelligence.
Proviamo a girare la cosa in positivo, anche perché non si può fare altro. Lo scandalo potrebbe portare inaspettati benefici, se i gruppi dirigenti (non solo politici) dei paesi coinvolti sapranno giocare queste carte: (1) sensibilizzare l'opinione pubblica, renderla un po' più "disincantata" (ma non cinica) sull'argomento spionaggio può servire a far capire che se si vuole competere in questo campo, bisogna fare investimenti di lungo periodo, e scommettere su tecnologie e fattore umano. Vogliamo "difenderci"? bene, allora dobbiamo pagare. (2) Condivisione delle strategie di intelligence fra paesi alleati; non potrà probabilmente mai essere una condivisione totale, come si diceva. Però la situazione di crisi - e la relativa debolezza degli Stati Uniti (forse neanche la più grave di questo periodo) - possono aiutare a trovare non un "galateo", ma obiettivi condivisi, e percorsi che si ostacolino il meno possibile (perché un po' fra alleati ci si deve ostacolare, è inevitabile...)
Se l'opinione pubblica maturerà un giudizio più complesso su quale deve essere l'impegno dei paesi europei nelle attività di sicurezza; e se paesi europei e Stati Uniti troveranno il modo di ridefinire le loro comuni priorità d'azione (non per chiedere "permesso?" quando è impossibile, ma per agire più coordinati e decisi contro i veri nemici) allora forse tutta questa confusione potrebbe non essere stata vana.
Francesco Maria Mariotti
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