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domenica 14 luglio 2019

Morrete come gli altri uomini

E comunque I Grandi Capi - dittatori o meno che siano - non sono mai immortali. Non lo è Putin, non lo è Xi Jinping, per dire i primi che mi vengono in mente. D'altronde non lo è nessuno di noi, potente o meno.
Non lo sono umanamente, e tanto meno politicamente. I piedi d'argilla sono di tutte le statue del potere, oggi ancor più di un tempo forse.
Per questo alcune analisi mi sembrano fragili. La storia dei "personaggi" è friabile, bisogna ascoltare l'acqua che scorre sotto terra, voce quasi silenziosa. Ma in realtà tante cose ci vengono già dette. Già oggi.

"(...) 5 Essi non conoscono né comprendono nulla;

camminano nelle tenebre;
tutte le fondamenta della terra sono smosse.
6 Io ho detto: "Voi siete dèi,
siete figli dell'Altissimo".
7 Eppure morrete come gli altri uomini
e cadrete come ogni altro potente».
8 Sorgi, o Dio, giudica la terra,
poiché tutte le nazioni ti appartengono"

(Salmo 82, o 81 a seconda della numerazione)

FMM

[nota pubblicata anche sul profilo personale FB; la versione del salmo è tratta dalla Nuova Riveduta http://www.laparola.net/testo.php?riferimento=salmo+82 ]

domenica 2 giugno 2019

Festa della Repubblica: il discorso di Mattarella

Buona festa della Repubblica, di seguito un estratto del discorso di ieri del Presidente Mattarella.

"(...) Abbiamo appena celebrato in ventotto Paesi d’Europa un grande esercizio di democrazia: la elezione dei deputati al Parlamento Europeo, a conferma delle radici solide di una esperienza che stiamo, gradualmente, costruendo da ormai sessantadue anni. In realtà sessantotto dal momento dell’avvio del primo organismo comunitario, la Comunità del carbone e dell’acciaio.

L’Italia è stata guidata, in questo percorso, dalle indicazioni della sua Costituzione; dalla consapevolezza di una sempre più accentuata interdipendenza tra i popoli; dalla amara lezione dei sanguinosi conflitti del ventesimo secolo. Soltanto la via della collaborazione e del dialogo permette di superare i contrasti e di promuovere il mutuo interesse nella comunità internazionale.

La Repubblica italiana, con l'assunzione di responsabilità nel contesto globale, ha contribuito, per la sua parte, alla definizione di modelli multilaterali e di equilibri diretti a garantire universalmente pace, sviluppo, promozione dei diritti umani.

Anche per questo non possiamo sottovalutare le tensioni che si sono manifestate, e si manifestano, provocando conflitti e mettendo pesantemente a rischio la pace in tanti luoghi del mondo.

Va ricordato che – in ogni ambito - libertà e democrazia non sono compatibili con chi alimenta i conflitti, con chi punta a creare opposizioni dissennate fra le identità, con chi fomenta scontri, con la continua ricerca di un nemico da individuare, con chi limita il pluralismo.

I valori delle civiltà e delle culture di ogni popolo contrastano in modo radicale con quella deriva e fanno, invece, appello a salde fondamenta di umanità, per confidare nel progresso. (...)"

https://www.quirinale.it/elementi/30111

domenica 28 aprile 2019

Intervista a Mario Monti. Politici cinici e ignoranti, così l’Europa non va lontano (Eco di Bergamo)

"(...) Come giudica il contrasto (se esiste) tra establishment ed opinione pubblica e il ruolo della tecnocrazia nel rapporto con la politica?
«L’establishment, inteso come classe dirigente o élite, esiste in ogni Paese, con ogni sistema politico. Il problema si ha quando l’élite si consolida indipendentemente dai meriti ed è difficile, anche per i meritevoli, entrare a farne parte. Fa difetto, allora, la “circolazione delle élite”. La società è allora iniqua, l’economia stagnante. Questo è, per l’Italia, un tema drammatico. Agli infuocati attacchi all’élite si accompagna curiosamente, soprattutto nella sinistra e nei movimenti che si dicono “populisti”, la mancanza di interventi che servirebbero a stimolare la circolazione delle élites : l’insistenza sul merito, la tassazione progressiva (in Italia ora si tende a preferire la flat tax), un’imposizione sulle successioni del livello riscontrabile in altri Paesi (in Italia è più bassa), una modesta ma ricorrente imposta patrimoniale (anatema, in Italia). Finiremo così per avere un’élite sempre più sclerotica e che non si rinnova, un odio sempre maggiore per le élites, una politica che disdegna sempre più le competenze».
E il rapporto tra politica e tecnocrazia?
«A me sembra che la competenza tecnica (“tecno”) possa diventare “tecnocrazia” in due casi: se soggetti diversi dai rappresentanti politici eletti dal popolo “prendono” il potere, ad esempio con un colpo di stato ; oppure se i rappresentanti politici, in una determinata situazione, decidono liberamente di ricorrere a qualcuno che ritengono in grado, per competenza, credibilità, forse anche per la sua estraneità ai partiti politici, di esercitare i poteri di governo meglio di come essi, nelle circostanze, sarebbero in grado di fare. Allora gli conferiscono, con la designazione o con un voto di fiducia, il potere di governare, creando essi una “tecno-crazia”. A mio parere, la prima forma di tecnocrazia va rigettata completamente, in quanto estranea alla democrazia; quanto alla seconda, se vi si ricorre è segno che la politica è in crisi grave. L’ideale, sempre secondo me, è che il processo di selezione dei politici valorizzi anche le competenze, per farne dei politici più consapevoli e più capaci di dialogare con i “tecnici”, che è comunque utile consultare nel processo delle decisioni politiche».
«I nazionalisti lasciati allo stato brado ci porterebbero alle guerre»: l’ha detto lei. È un rischio reale? È vero che, contrariamente a ciò che molti credono, indeboliscono il Paese che li alimenta?
«“Le nationalisme c’est la guerre!” Così François Mitterrand concluse il suo ultimo discorso al Parlamento europeo nel gennaio 1995, il primo discorso che ascoltai come neo-commissario europeo. Aveva ragione. I movimenti nazionalisti dei vari Paesi europei che cos’hanno in comune ? La volontà di ridimensionare, forse azzerare, i poteri di Bruxelles. Al di là di questo obiettivo, se per un momento supponiamo che l’abbiano conseguito, che cosa avrebbero in comune? Nulla, solo la volontà che la nazione di ciascuno prevalga sulle nazioni degli altri, foss’anche con l’uso della forza. No, grazie. Per questi nobili ideali, abbiamo già avuto decine di milioni di morti. Nel frattempo, ogni Paese sarebbe più debole, in mancanza di un’Europa più forte. Più debole verso le eventuali prepotenze di questo o quel Paese europeo. Più debole verso le potenze extraeuropee, politiche, militari o anche soltanto tecnologiche». (...)"

martedì 3 giugno 2014

"Non seguirai la maggioranza per agire male" (lettura di "Principî e voti", di Gustavo Zagrebelsky)

In un momento storico in cui l'Italia sembra aver deciso di affidarsi (ancora!?) a un uomo solo al comando, e in cui "streaming" e "diretta" diventano i sostitutivi della rappresentanza (in questo - e forse anche in altro: nell'accettare per esempio il voto palese, in Parlamento, sulle richieste della magistratura - Grillo ha ottenuto una vera e storica vittoria, al di là delle percentuali delle Europee) è interessante riprendere in mano un testo non nuovissimo di uno di quei "professoroni", così additati all'opinione pubblica da alcuni esponenti di area governativa.
 
Leggere "Principî e voti" di Gustavo Zagrebelsky (Giulio Einaudi editore, 2005), anche nella sua "inattualità", a distanza di anni dalla uscita, impone - per così dire - una pausa di riflessione, invitandoci  a entrare nei luoghi, nei tempi e nei modi in cui opera quella particolarissima istituzione  - di cui l'autore è stato membro e presidente - che è la Corte Costituzionale. 

La "pausa di riflessione" non è solo un richiamo alla lettura; possiamo anche utilizzare questa espressione per dire la diversa dinamica che il dibattito e la decisione della Corte hanno - o dovrebbero avere, secondo il presidente emerito - rispetto al tempo presente, alle emergenze che la politica impone, o che alla politica stessa vengono imposte da mass-media, opinione pubblica e via così dicendo.
 
La distanza dall'esterno nei "processi" intentati davanti alla Corte è un percorso che da fisico si fa spirituale: il rito della "chiusura" del tavolo, aperto a ferro di cavallo durante le udienze, mentre diventa "quadrato, anzi cerchio (la figura che meglio regge il peso)" (p.13) quando i giudici si ritirano in camera di consiglio, segna quel processo di "messa a fuoco", appunto "presa di distanza", "sospensione del giudizio", che sono passaggi essenziali perché i giudici possano far valere - anche di fronte a se stessi - come unico criterio la fedeltà alla Costituzione.
 
E' questo il fulcro del breve e denso saggio di Zagrebelsky: la fedeltà alla sola Costituzione, di fronte a tutte le possibili "appartenenze altre", che inevitabilmente si fanno presenti alla coscienza e nel vissuto dei giudici; coscienza e vissuti che vengono vagliati di fronte a se stessi, e di fronte agli altri colleghi ("Ogni camera di consiglio, per nove anni, è perciò un esame, particolarmente severo nei primi tempi, quando prende forma la considerazione che accompagnerà il giudice, per tutta la durata della carica. Il passato conta solo per il nostro foro interno, per il giudizio che ciascuno di noi ha su se stesso, non per gli altri giudici che partecipano al collegio.", pp.63-64).

L'autonomia di giudizio - anche di fronte a proprie precedenti posizioni - sembra essere quasi - il paragone è azzardato, ma forse l'autore consentirebbe - il punto di arrivo di un percorso di ascesi, di continua negazione di sé. ("La camera di consiglio, oltre che un luogo fisico, è quindi anche e soprattutto un luogo spirituale: lo spazio di quella unità che di quindici fa uno", p.9). L'attenzione che Zagrebelsky porta ad alcuni dettagli procedurali, penso per esempio all'attenzione rivolta al problema delle dimissioni (pp.64-66, non a caso inserite in un capitolo dal titolo "Amor di sé"), servono a ribadire questo processo, questa attenzione che non è solo formale.

Il giudice deve saper prendere le distanze anche da quella "parti" di identità che sono più forti, come ad esempio l'appartenza religiosa, o etnica, o analoghe, "normalmente considerate naturali o, addirittura, virtuose: quelle che originano da cause interiori che non derivano da altri che da noi stessi"(p.93). Partendo dalla citazione della dissenting opinion del giudice Frankfurter in una causa in cui la Corte Suprema americana dichiarò l'obbligo scolastico del saluto alla bandiera come contrario alla libertà di coscienza (rovesciando un precedente orientamento), l'autore enuclea e cala nella realtà italiana la frase "noi giudici non siamo né ebrei, né cattolici, né agnostici" (pp.93-97), ribadendo la nettezza di una scelta laica che non può avere compromessi.

Ma come si giustifica politicamente una realtà così particolare, anche dal punto di vista della formazione, come la Corte? Qui Zagrebelsky offre un contributo che può servire - io credo - anche alle nostre discussioni quotidiane, richiamando la distinzione fra pactum societatis e pactum subiectionis (pp.25-26, poi ripresa in seguito più volte).
 
Il pactum societatis è il patto per cui si supera il conflitto interno alla comunità, si mette al bando la guerra civile, e si  dichiarano i valori che legano una società, quel minimo comune denominatore che fa sì che una collettività stia insieme, anche nel rispetto di alcuni valori fondamentali; il pactum subiectionis è la scelta di sottomettersi a un governo - a una maggioranza, in democrazia - al fine di poter arrivare a decisioni concrete e operative e regolare la vita della comunità. Il secondo è vincolato al primo, dipende dal primo.

Ma la politica che "regge" - diciamo così - il secondo patto valendosi del principio di maggioranza può ribellarsi al primo patto, attaccando - anche subdolamente - i valori che ci uniscono. Ed è di fronte a questi attacchi che il giudice costituzionale deve comunque saper continuare nella sua missione, educato - anche dalla forme dei riti, che oggi a volte non conosciamo o comprendiamo - a quella distanza che permette la chiarezza di giudizio e la libertà di giudizio. 

Quella distanza che fa sì che il giudice possa obbedire al monito divino "Non seguirai la maggioranza per agire male" (Es 23.2, riportato a p. 118): e, a conferma della centralità di questo monito, il titolo di uno dei capitoli fondamentali del libro (quello in cui vengono presentati i due pacta) è "Non tutto può mettersi ai voti".  

Non tutto può mettersi ai voti, e nessuna maggioranza può farci accettare ciò che è male. Questi i due pilastri della dignità del giudice costituzionale, e che andrebbero meglio compresi da tutti, proprio oggi.

Certo, alcuni toni e richiami del libro si possono più o meno condividere, e a volte il testo può apparire eccessivamente "severo", o "timoroso" e prudente rispetto ai cambiamenti che di volta in volta si sono proposti intorno al funzionamento della Corte, o alla sua composizione; ma il messaggio di Zagrebelsky appare comunque forte e attuale, e foriero di nuove riflessioni. 

Proprio quando appare urgente il momento della decisione, proprio quando troppo spesso ci si richiama facilmente al Carl Schmitt che caratterizza la politica con la dicotomia amico-nemico (si legga la nota 9 a p.38, dove si denuncia la banalità di siffatta estensione di un concetto bellico a tutta l'attività politica), ecco che allora deve essere più forte la attenzione al pactum societatis che ci lega, deve essere più forte il richiamo a ciò che ci unisce, rispetto a ciò che ci divide.  
 
Non certo per mantenere tutto uguale a se stesso, ma perché nella fretta del cambiamento non si perdano di vista i legami che ci dicono ciò che siamo come collettività. Al di là dei leader e delle urgenze -  mediatiche o reali - del momento.

Francesco Maria Mariotti

giovedì 1 maggio 2014

Sul Caso Aldrovandi

Sul "caso Aldrovandi" mi sembra molto utile un articolo della Stampa che riscostruisce tutti le fasi della vicenda; segnalo inoltre - "rubandole" dalla pagina FB dell'on.Fiano - alcune dichiarazioni - molto importanti - dei segretari del Siap e del Siulp.
Infine una riflessione più complessiva di Gianni Cuperlo.

Al di là del singolo caso, è necessario tenere sempre presente che la difesa dei diritti di tutti - e quindi anche delle persone "fermate" o "arrestate" - è parte sostanziale della dignità della polizia e delle forze dell'ordine tutte

Ed è necessario che in questo paese - dove la domanda di sicurezza è giustamente molto alta - si mantenga una attenzione forte da un lato alle esigenze delle forze di polizia, che troppo spesso diventano una sorta di "parafulmine" delle tensioni sociali, dall'altro alle garanzie dei diritti di tutti, anche di chi trasgredisce le regole, o è sospettato in questo senso. 

Può sembrare banale, ma l'equilibrio perennemente instabile delle democrazie liberali (occhio all'aggettivo!) sta nel tenere conto - insieme - di queste esigenze.

FMM


La causa della morte 
È un tema molto dibattuto nel processo, poiché da esso dipende la responsabilità degli imputati, e ora viene nuovamente sollevato dal Sap. Nelle prime relazioni di servizio, i poliziotti attribuiscono la morte di Aldrovandi alla «assunzione di sostanze stupefacenti». Le sentenze hanno accolto la tesi del professor Gustavo Thiene, anatomopatologo di fama mondiale: morte dovuta ad asfissia da compressione toracica. Secondo i giudici, la pressione esercitata sul tronco di Aldrovandi dagli agenti determinò lo schiacciamento del cuore. I poliziotti obiettano: il consulente era stato nominato dalla famiglia Aldrovandi, dunque è di parte. E propongono una versione alternativa: morte dovuta a «excited delirium sindrome», sindrome da delirio eccitato. Ma secondo la Cassazione la consulenza del professor Thiene è attendibile e adeguatamente motivata (dalle foto risultano due ematomi sul ventricolo sinistro e le dichiarazioni degli operatori del 118 sono convergenti). Inoltre proviene da una riconosciuta autorità scientifica in materia di morti improvvise cardiache. Viceversa, la tesi dei medici nominati dai poliziotti secondo cui Aldrovandi morì da solo perché alterato (excited delirium), è stata smentita nel processo, sia con documenti sia con un confronto tra periti. 

Che altro dovevamo fare? 
Tutti gli imputati hanno lamentato che i giudici, censurando la loro condotta violenta, non ne hanno specificamente indicato una alternativa. Insomma: che altro avrebbero potuto fare gli agenti di fronte a un ragazzo violento e drogato? La Cassazione ribatte che la «condotta alternativa lecita che l’ordinamento si aspettava da funzionari della Polizia di Stato» è stata abbondantemente illustrata nelle sentenze (in tutto, un migliaio di pagine): dialogo, approccio contenitivo e di controllo (se del caso anche con l’uso di manganelli), prime cure sanitarie (la volante era dotata di defibrillatore e un agente aveva seguito un apposito corso di formazione). Invece i manganelli furono usati per colpire (tanto che due si ruppero); i numerosi colpi proseguirono nonostante le richieste di aiuto di Aldrovandi; la colluttazione non si fermò dopo aver reso il ragazzo «inoffensivo»; il 118 fu chiamato solo quando il ragazzo era morto; «il personale sanitario, una volta sopraggiunto, dovette insistere perché Aldrovandi, ormai esanime, ma ancora compresso a terra con il volto sul selciato, venisse liberato dalle manette e girato sul dorso». 


Aldrovandi:Tiani, Siap, polizia non spaccata ma unita e democratica(ANSA) - ROMA, 1 MAG - In merito alle polemiche sulla "polizia spaccata a seguito degli inopportuni applausi ai poliziotti condannati per il caso Aldrovandi riteniamo che la manipolazione politica su un tema cosi' delicato non rende un buon servizio alle istituzioni". Lo afferma in una dichiarazione Giuseppe Tiani, segretario del Siap. "I sindacati su posizioni diverse non vuol dire una polizia spaccata: istituzione e diritto di rappresentanza sono due cose diverse. La polizia e' unita e democratica all'interno della quale le diverse sensibilita' sindacali su temi delicati per i cittadini possono dare l'idea di un corpo lacerato. Ma questo - ha concluso Tiani - e' un errore di valutazione che noi respingiamo con forza e lavoriamo ogni giorno affinche' l'istituzione sia sempre compatta e al servizio del paese" e per questo "abbiamo sempre condannato e preso le distanze dagli eccessi nell'uso della forza che la legge ci concede".


CASO ALDROVANDI: ROMANO (SIULP), RISPETTO VITA IRRINUNCIABILE ='CONDIVIDO PAROLE ALFANO E PANSA, NOI PROFESSIONISTI DELLA GARANZIA DELLA LEGALITA''


Roma, 30 apr. (Adnkronos) - "Condivido le dichiarazioni del ministro Alfano e del capo della polizia, per i poliziotti il rispetto e la sacralita' della vita sono un elemento irrinunciabile per lo svolgimento del nostro lavoro". Felice Romano, segretario generale del Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori polizia), commenta cosi' gli applausi durante l'assemblea del Sap agli agenti condannati per l'omicidio Aldrovandi.

"Per noi la vita e' sacra anche quando ci troviamo di fronte a criminali efferati e persino quelli che hanno procurato stragi nel nostro Paese - spiega all'Adnkronos - Noi non siamo giudici ma poliziotti, professionisti della garanzia della legalita'. E ogni volta che si perde una vita umana vuol dire che tutta la collettivita' ha perso, che abbiamo fallito sia nella missione di educazione alla legalita' sia nel sistema di prevenzione e repressione che ogni democrazia deve avere".

"Per chi ha scelto di essere uomo dello Stato - rimarca il sindacalista - come me e come tutti i poliziotti e' una cosa devastante quando si perde una vita umana perche' c'e' oltre al lutto e al dolore dei familiari che hanno perso quella vita c'e' anche la devastazione di chi deve rispondere, prima ancora che ai familiari della vittima e alla giustizia, alla propria coscienza, ai propri figli e alla propria famiglia". Ecco perche' io voglio tranquillizzare i cittadini e i familiari delle vittime che per noi la sacralita' e il rispetto della vita e' irrinunciabile - prosegue Felice Romano - Cosi' come sono convinto che nei cittadini e' radicato e diffuso il rispetto dei tanti onesti servitori dello Stato che hanno sacrificato la propria vita a garanzia della democrazia, a difesa delle istituzioni e dei diritti umani".

Per noi le sentenze non si discutono, per noi che siamo uomini dello Stato le sentenze si rispettano e basta, anche quando non ci piacciono e nonostante sappiano che non sempre la verita' giudiziaria e' la verita' assoluta alla quale tutti ci dobbiamo attenere. Questo e' il limite - conclude il segretario del Siulp - che distingue lo Stato e i suoi rappresentanti dall'anti Stato e i suoi accoliti".





Bentrovati.


Pensavo di scrivere qualche riga sulla bozza di riforma della pubblica amministrazione presentata ieri dal governo. Magari lo farò più avanti, ma non mi riesce questa mattina (augurando prima di ogni cosa un buon Primo Maggio a tutti voi) di tacere sull'applauso di Rimini.

Credo abbia ragione Luigi Manconi: una parte della Polizia italiana è malata. Poi lo so benissimo anch'io che i tagli alla sicurezza hanno creato fino dentro gli apparati dello Stato sacche di disagio e difficoltà che bisogna affrontare con politiche e risorse. Ma questo non toglie che l'episodio dell'altro ieri parla di un problema diverso e di un potenziale fallimento dello Stato.

Il Sap radunato a Rimini non rappresenta la maggioranza dei lavoratori della polizia. Esistono di fatto due campi sindacali. Da una parte il Siulp, il Siap, il Silp-Cgil e l'Associazione nazionale dei funzionari di Polizia. Come ricorda oggi Carlo Bonini, queste sigle sono le interpreti della tradizione sindacale che prese corpo con la riforma della Polizia nel 1981 e la scelta di smilitarizzare il corpo. Dall'altra parte ci sono il Sap, il Consap e il Coisp: la rappresentanza sindacale di una destra che ha trovato nella politica, a partire dalla tragedia di Genova, una solida sponda.

Dietro c'è la cronaca di questi mesi e di questi anni. La ferita mai rimarginata tra l'attuale ministro degli Interni e gli apparati del Viminale dopo la gestione della vicenda Shalabayeva. Tutto vero.

Altrettanto vero, però, è che quell'applauso non ha solo calpestato il rispetto e la memoria di un ragazzo di diciott'anni, ma ancora una volta è stato il riflesso di una concezione distorta dello Stato di diritto che disprezza le sentenze e ne calpesta la legittimità. 

Pensare che un lavoro difficile, faticoso e prezioso per la comunità, un lavoro malpagato e pericoloso possa tradursi in un aggiramento delle leggi e dei principi stessi di assolvimento del compito sociale a cui poliziotti sono chiamati è un modo di ragionare incompatibile con la democrazia.

E d'altra parte proprio la smilitarizzazione della polizia e la possibilità di dare vita, anche in quel contesto, a sindacati di rappresentanza dei lavoratori è stato un modo per "riconciliare" (lo spiega bene Stefano Rodotà) le forze dell'ordine con i diritti della persona e le regole civili della convivenza.

Siamo davanti a una grande questione di principio, non allo sciagurato comportamento di un gruppo di estremisti. Conviene saperlo.

Buone cose e viva il Primo Maggio.


martedì 3 dicembre 2013

Putin ha fatto male i conti (da Presseurop - Financial Times)

Negli ultimi dieci anni nessun avvenimento ha spaventato il Cremlino più della "rivoluzione arancione" ucraina nel 2004. Adesso quello di Vladimir Putin pare trasformarsi in un incubo ricorrente, dato che i dimostranti sono tornati a riempire la piazza dell'Indipendenza di Kiev chiedendo a gran voce che il loro paese si avvicini all’Ue e prenda le distanze dalla Russia.
Le dimostrazioni in Ucraina sono un’umiliazione e al tempo stesso un pericolo per Putin. Mentre elogia i profondi legami culturali e storici esistenti tra Ucraina e Russia, il presidente russo scopre che decine di migliaia di ucraini preferiscono affrontare le rigide temperature e i manganelli delle forze dell’ordine che entrare un po’ di più nella sfera di influenza della Russia.
Se la folla in tumulto riuscisse ancora una volta a minacciare di rovesciare un governo ucraino corrotto e dispotico, la lezione politica per la Russia sarebbe molto chiara. Dopo tutto sono trascorsi meno di due anni da quando i manifestanti si sono riversati per le strade di Mosca per protestare contro la seconda nomina di Putin, ribattezzando il suo partito Russia Unita “il partito dei corrotti e dei ladri”.(...)

giovedì 31 ottobre 2013

Non E' Quello Il Problema (legge elettorale e preferenze)


No alle preferenze. Non è quello il problema della legge elettorale. 


Non mi interessa esprimere una preferenza, se la campagna elettorale arriva a costare cifre impensabili e se i partiti non sono in grado di fare un lavoro collettivo e plurale che garantisca stabilità, governo e al tempo stesso capacità di ascolto dei cittadini. 

Perché la preferenza - con un peso eccessivo delle spese elettorali e con partiti deboli (che non è lo stesso di leggeri, forse oggi abbiamo partiti pesanti e deboli...) - è totalmente inutile, è una parvenza di democrazia.

Non è la preferenza che fa il buon rappresentante, ma un insieme strutturato di pratiche e regole che fanno sì che il lavoro delle Camere sia ben compreso dai cittadini, e controllato alle scadenze naturali (non in ogni secondo con il ricatto di una tv...). 

La forza della politica è la solidità delle istituzioni, e non dipende dal voto dei cittadini. Costituzionalismo e liberalismo sono precedenti alla - e indispensabili premesse della - democrazia.

FMM

martedì 20 agosto 2013

Il Pcc: "Le idee importate dall'occidente mettono a rischio la società cinese" (da Repubblica.it)


Ci sono alcune idee tipiche delle società occidentali che minacciano la società cinese. O almeno è questo che pensa il Partito comunista cinese e il suo leader, Xi Jinping, che ha diffuso ai membri del Pcc un memo - chiamato Documento Numero 9 - in cui elenca i sette pericoli. Ma quali sono? Per primo è "la democrazia costituzionale", poi ci sono "l'universalità dei diritti umani", "l'indipendenza dei media", "l'idea di partecipazione",  "il liberismo sfrenato" e "le critiche nichiliste al passato del Pcc". 


Nel Documento si legge che "le forze ostili dell'Occidente verso la Cina e i dissidenti nel Paese si stanno costantemente infiltrando nella sfera ideologica". Il memo non è stato diffuso al di fuori del partito ma è stato reso noto dal New York Times. Un documento di questo livello deve avere l'approvazione della segreteria del partito, e quindi del presidente Xi in persona.



E il memo avrebbe già operato una svolta nella politica interna del regime cinese: i media controllati dal Pcc hanno iniziato ad attaccare duramente il costituzionalismo e la società civile, rivela ancora il Nyt; si è registrata una stretta del controllo sulle critiche sul web; due attivisti per i diritti dei cittadini sono stati arrestati nelle scorse settimane.(...)


sabato 18 febbraio 2012

Prediche inutili


Il governo continui nella sua ottima azione di risanamento e di riforma del paese; per tutto il Paese - uomini e donne - c'è bisogno di creare le condizioni per la crescita, comprendendo in questo rimuovere tutti gli ostacoli che limitano di fatto l'eguaglianza, come da dettato costituzionale.

Le donne italiane non hanno bisogno di un governo che le protegga dalla brutta tv: sono professioniste, studentesse, politiche molto capaci e raggiungono spesso traguardi importanti, anche senza "quote" o "protezioni" aggiuntive (che rischiano sempre di creare condizioni di "concorrenza sleale").

(Certo, al contrario di quanto dicono alcune, non hanno inventato - perché non può esistere, in realtà - una "grammatica di genere" diversa da quella maschile, sul potere, sull'economia e sulle istituzioni). 

I cittadini  e le cittadine decideranno da soli nelle loro case cosa fare nel tempo libero, non è affare del governo.

I Ministri facciano il loro lavoro, che non è predicare dal pulpito.

Francesco Maria Mariotti

ps: eventualmente fra i compiti di questo governo c'è quello  - urgente - di riformare la RAI, ma questo è un altro discorso....

mercoledì 4 gennaio 2012

L'Europa Cambi, O Sarà Orbán il Nostro Futuro

Il problema di Orbán non è risolvibile solo con eventuali sanzioni, o dure trattative economiche che facciano recedere questa sorta di "piccolo dittatore democratico" che regna su Budapest. 

La sfida che dobbiamo raccogliere non è solo reagire, ma costruire una comunità politica che sia realmente capace di  vincere le tentazioni di chiusura e neo-nazionalismo, che sono forti in frangenti storici come quello che stiamo vivendo.

Per questo non può bastare l'Europa del rigore, pur necessaria; valga per la nostra Unione quel che si diceva per  l'Italia: se i cittadini percepiscono i sacrifici come "imposti" dall'esterno, e per di più un esterno "irriconoscibile" e "indiscutibile", la coesione sociale sarà messa in crisi. Allora Orbán non sarà più un'eccezione, nel panorama del continente.

L'Europa deve cambiare passo, se vuole essere percepita non solo come "esaminatrice di conti", ma come effettiva garanzia di libertà, pace, prosperità. Non possiamo avere paura dei debiti sovrani e sottovalutare la paura della povertà, che è la vera protagonista della politica oggi: sacrifici devono trovare riscontro in un nuovo orizzonte di sviluppo e di crescita. 

E' ora di realizzare compiutamente la promessa europea: allora sì, sarà sconfitto Orbán.

Francesco Maria Mariotti



(...) La borghesia era stato il motore dell’Europa moderna, ovunque. Anche in Ungheria. Ma con un problema. Lungo il Danubio, la borghesia, dopo secoli di guerre e dominazioni straniere, era nata in ritardo. E nonostante gli splendori della Belle Époque, era fragilissima.
(...) L’economia di mercato introdotta da un giorno all’altro nell’89 ha ridato ossigeno alla classe media. Ma non è bastato. Il fiorino cagionevole ha presto spento i sogni di benessere, di rinascita, di prosperità a livelli occidentali, liberando il campo alle paure e agli orgogli nei quali l’Ungheria è vissuta per secoli, incuneata tra Occidente e Oriente. I valori della democrazia, del pluralismo, del dialogo, della diversità, sembrano superflui e accantonabili nella vita quotidiana dove è faticoso fare la spesa e pagare le bollette. Torna la tentazione del ripiegarsi su se stessi, appigliandosi all’idea di una Grande Ungheria, magari con un pizzico di ottuso vittimismo, per ciò che è successo nel corso della Storia, dalle guerre col turco, all’invasione sovietica, al trattato di pace di Trianon voluto dalla Francia che tolse alla fine della Grande Guerra due terzi del Paese.
Nei momenti di difficoltà, per antico morbo, l’Ungheria più che sentirsi parte del continente rimarca la sua fiera alterità suicida, corroborata da quella lingua dolce e altaica che nessuno in Europa capisce. Quando Orbán ha sfidato la comunità internazionale con la nuova costituzione, «Nessuno può sindacare su quel che facciamo», parlava anche in questo spirito. Le riforme, la modernità, il mercato, possono attendere. Meglio affidarsi a miti imprecisi di purezza, di sacralità della terra (che può essere comprata con quattro fiorini dagli stranieri della globalizzazione), di uomini forti al comando. Ancora una volta la classe media è stata stritolata, dalla farragine dello Stato e dall’inflazione. Ancora una volta torna la tentazione non di sconfiggere gli avversari politici, ma di cancellarli, processarli, zittirli. Ma per non perdere di nuovo i cugini ungheresi dalla famiglia europea, bisogna capire perché si sono ammalati.
(...) Il problema è sapere qual’è la posizione delle forze di opposizione di sinistra e/o liberali nei confronti delle pressioni provenienti dall'estero (occidente e grandi potenze). La risposta non è facile. Da un certo punto di vista la distruzione delle istituzioni democratiche potrebbe giustificare, visto il potere schiacciante della destra antidemocratica, l'intervento occidentale in favore della democrazia. 
Tuttavia le potenze occidentali e in particolare modo la Commissione europea, oltre a voler conservare un regime di tipo rappresentativo e costituzionale e la separazione dei poteri, vogliono che l'Ungheria adotti una politica economica che non faccia necessariamente (per utilizzare un eufemismo) gli interessi del popolo magiaro. 
Gli ungheresi sono deluso e potrebbero vedere nella "causa democratica" solo una giustificazione delle misure di rigore sempre più dure provenienti dalle potenze occidentali, preoccupate della stabilità finanziaria del paese. Se la difesa delle istituzioni democratiche continuerà a essere accompagnata dall’impoverimento del popolo ungherese, non ci si deve stupire che questo non sia entusiasta dell’equazione democrazia liberale-miseria. 
La maggior parte delle critiche occidentali nei confronti del governo sono giuste, ma non sono espresse dal corpo elettorale ungherese. I cittadini ungheresi non possono delegare alle potenze occidentali la politica del loro paese. Vincolare la democrazia a mezzi antidemocratici esterni è ingiustificabile, e l'esperienza mostra che queste soluzioni non sono efficaci. (...)

(...)L’Unione europea si trova in una situazione delicata nei confronti di questo piccolo paese diventato membro dell’Ue da sette anni: non può restare indifferente ai metodi di governo di Orbán, agli attacchi al pluralismo dei media e alle minacce all’indipendenza dell’apparato giudiziario, e nel 2010 aveva già protestato in modo energico. Alla fine di dicembre il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha inviato a Orbán una lettera – la seconda in due settimane – per metterlo in guardia dai rischi della sua politica. Tale avvertimento non pare però aver sortito l’effetto sperato, non più dell’analoga lettera spedita da Hillary Clinton. All’Ue resta ancora la possibilità di ricorrere all’articolo 7 del trattato di Lisbona, che prevede di togliere il diritto di voto agli stati membri che violano le regole democratiche.
Non è facile, in ogni caso, punire un governo democraticamente eletto, e il precedente dell’Austria ha lasciato un amaro ricordo a Bruxelles: nel 2000 l’Unione aveva reagito duramente all’ingresso nel governo di un partito di estrema destra, ma aveva rinunciato a intervenire una volta preso atto dell’inefficacia delle sue proteste. La mobilitazione dell’opposizione ungherese, della società civile e degli intellettuali è un segnale importante che legittima le pressioni esercitate dall’Ue, che ambisce a essere una comunità dai valori democratici condivisi.(...)

venerdì 30 dicembre 2011

Il caso Orbán, Minaccia per l'Europa

Dobbiamo tornare a guardare ad est con molta preoccupazione. Le ultime notizie sull'Ungheria di  Orbán ci inducono a riflettere sui rischi - per tutta l'Europa - che la crisi economica e sociale possa diventare - di nuovo, come negli anni '30 del secolo scorso? - una minaccia per le basi democratiche della nostra convivenza. Minaccia e dunque sfida per una comunità europea che deve riflettere sul senso della propria esistenza, al di là delle questioni - pur fondamentali - di bilancio pubblico. 

Siamo cresciuti e ci siamo organizzati come europei - dopo la seconda guerra mondiale - proprio perché non tornassero più gli spettri dell'intolleranza e di regimi illiberali. Forse questa sfida può portarci a essere più forti, se saremo capaci di combattere. Ora. Subito.

Francesco Maria Mariotti

Ma da dove viene? E, soprattutto, dove vuole (o può) arrivare? Prima di diventare il leader più autoritario (e ansiogeno) d'Europa, l'ungherese Viktor Orbán, 48 anni, è stato un oppositore del regime comunista, si è laureato in legge (con tanto di stage a Oxford), ha professato idee social-liberali, ha fatto il parlamentare europeo fino a ricoprire la carica di vicepresidente del Ppe. Dieci anni fa, quando guidò per la prima volta il governo, Orbán si preoccupava di tagliare le tasse, ridurre la disoccupazione e guidare il suo Paese all'appuntamento con l'Europa. Ora, tornato al potere nell'aprile del 2010, farnetica sul ritorno della Grande Ungheria (ma forse si accontenterebbe anche del formato medio uscito dopo la Prima guerra mondiale). Intanto minaccia di ridurre la Banca centrale a semplice «ufficio bolli» dell'esecutivo, di soffocare definitivamente giornali e televisioni non graditi, di varare una grottesca legge elettorale che favorirebbe in modo smaccato il Fidesz, «l'Alleanza dei giovani democratici», il partito fondato nel marzo del 1988 dall'Orbán che il mondo sta imparando a conoscere.(...)




I negoziati sono durati poco. Il 16 dicembre il Fondo monetario internazionale e l'Unione europea hanno deciso di sospendere i colloqui con Budapest sull'eventuale aiuto finanziario all'Ungheria. Le due istituzioni sono infatti convinte che la riforma della Banca nazionale ungherese presentata dal governo di Viktor Orbán minacci l'indipendenza dell'istituzione. Secondo il progetto di legge il governo e il parlamento, dove il partito di Orbán può contare sui 2/3 dei seggi, potranno nominare alcuni dirigenti della banca.
Secondo Népszabadság questo nuovo episodio dimostra che "l'Unione comincia già a rinunciare al dialogo con il regime di Orbán: perché finanziare un sistema autoritario, antidemocratico e antieuropeo? Il problema è che la delegazione è partita, ma noi restiamo. Sull'orlo dell'abisso".(...)
(...) Un altro testo legislativo prevede la fusione tra banca centrale e autorità di vigilanza dei mercati, che potrebbe diluire i poteri del governatore. Il 1° gennaio poi entreranno in vigore modifiche alla Costituzione che secondo molti osservatori comportano una riduzione delle libertà fondamentali. Vi sono stati cambiamenti alle leggi che regolano la stampa e le attività religiose, così come riduzioni ai poteri della magistratura.
Il braccio di ferro che il primo ministro Orban ha deciso di avere con le autorità comunitarie sorprende. (...)

venerdì 11 novembre 2011

"Stato e mercato oltre la crisi" (Mario Monti)

Nel giorno in cui Mario Monti inizia la sua attività di Senatore segnalo nuovamente uno degli articoli che l'ex Commissario UE ha scritto per il Corriere, perché mi pare il più denso di segnali di cui tenere conto per quella operazione di ricostruzione di cui ha bisogno questo paese, al di là degli estremismi intellettuali di chi sogna un ritorno allo Stato eccessivamente regolatore e/o salvatore di imprese, e quello opposto di chi vede un mercato totalmente libero, totalmente autoregolamentato, e "disincarnato" dalle comunità in cui si muove, ambedue visioni quanto mai pericolose, oggi. Con Mario Monti dobbiamo tentare di difendere (in Italia sarebbe meglio dire "di implementare realmente") un'economia sociale di mercato, che tenga insieme libertà di impresa e difesa della dignità della persona, anche dal punto di vista dei suoi diritti sociali, oggi inevitabilmente a rischio.

Francesco Maria Mariotti

(ps: grassetto e corsivo sono miei)
(...) Ma, nella ricerca di nuove configurazioni nell'economia sociale di mercato, sarebbe pericoloso lasciarsi guidare semplicemente dall'insofferenza verso la disciplina imposta dalle regole del bilancio pubblico o da quelle del mercato. Soprattutto, converrà tenere ben presenti tre considerazioni. In Italia, anche per il ritardato avvicinamento alla cultura del mercato, vi sono ambiti in cui il quantum di «mercato» è ancora insufficiente: o perché non è ancora stato introdotto mentre sarebbe opportuno farlo, oppure perché mercato vi è, ma insufficientemente concorrenziale o non adeguatamente vigilato. Nei confronti internazionali l'Italia è di solito tra i Paesi i cui mercati — per modalità di regolamentazione, funzionalità ed efficienza -—sono considerati ampiamente perfettibili. Nel valutare l'opportunità di un ruolo maggiore per il «pubblico», sarà necessario sostenere gli sforzi, che sono in corso, per accrescere l'impegno e l'efficienza nelle pubbliche amministrazioni ma senza dimenticare che, tuttora, la funzionalità che le caratterizza non brilla, nei confronti internazionali, per capacità di contribuire alla crescita e alla competitività del paese.

E andrà tenuto presente che «pubblico» non deve significare discrezionale e arbitrario. Sarebbe questo il modo migliore per far cadere ulteriormente l'attrattività dell'Italia come luogo di investimento da parte delle imprese internazionali. Soprattutto, è essenziale evitare che un maggiore «volontarismo» dei pubblici poteri, in sé lodevole, si traduca in interventi tali da creare una confusione dei ruoli tra Stato e mercato, tra politica e imprese. Fu proprio tale confusione di ruoli, soprattutto negli anni ’70 e ’80, a ledere il potenziale di crescita dell'economia italiana, a sprofondarla negli squilibri finanziari, a mettere in dubbio la sua capacità di far parte pienamente dell'Europa.