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lunedì 10 giugno 2019

Hong Kong contro la legge sull'estradizione (ilPost)

Gli oppositori della legge, tra cui molte organizzazioni per la difesa dei diritti umani, temono che le nuove regole sull’estradizione espongano ancora di più Hong Kong al problematico e illiberale sistema giudiziario cinese, e ridurranno la sua indipendenza. In particolare temono che la legge possa legittimare i rapimenti in città da parte delle autorità cinesi (ci sono stati vari casi negli anni), oppure rendere il governo di Hong Kong più vulnerabile alle richieste di quello di Pechino, anche se dovute a motivi politici. Inoltre un maggior potere della Cina sul sistema giudiziario di Hong Kong potrebbe spingere molte persone a non manifestare le proprie critiche al governo.

https://www.ilpost.it/2019/06/10/proteste-hong-kong-estradizione/

martedì 3 giugno 2014

"Non seguirai la maggioranza per agire male" (lettura di "Principî e voti", di Gustavo Zagrebelsky)

In un momento storico in cui l'Italia sembra aver deciso di affidarsi (ancora!?) a un uomo solo al comando, e in cui "streaming" e "diretta" diventano i sostitutivi della rappresentanza (in questo - e forse anche in altro: nell'accettare per esempio il voto palese, in Parlamento, sulle richieste della magistratura - Grillo ha ottenuto una vera e storica vittoria, al di là delle percentuali delle Europee) è interessante riprendere in mano un testo non nuovissimo di uno di quei "professoroni", così additati all'opinione pubblica da alcuni esponenti di area governativa.
 
Leggere "Principî e voti" di Gustavo Zagrebelsky (Giulio Einaudi editore, 2005), anche nella sua "inattualità", a distanza di anni dalla uscita, impone - per così dire - una pausa di riflessione, invitandoci  a entrare nei luoghi, nei tempi e nei modi in cui opera quella particolarissima istituzione  - di cui l'autore è stato membro e presidente - che è la Corte Costituzionale. 

La "pausa di riflessione" non è solo un richiamo alla lettura; possiamo anche utilizzare questa espressione per dire la diversa dinamica che il dibattito e la decisione della Corte hanno - o dovrebbero avere, secondo il presidente emerito - rispetto al tempo presente, alle emergenze che la politica impone, o che alla politica stessa vengono imposte da mass-media, opinione pubblica e via così dicendo.
 
La distanza dall'esterno nei "processi" intentati davanti alla Corte è un percorso che da fisico si fa spirituale: il rito della "chiusura" del tavolo, aperto a ferro di cavallo durante le udienze, mentre diventa "quadrato, anzi cerchio (la figura che meglio regge il peso)" (p.13) quando i giudici si ritirano in camera di consiglio, segna quel processo di "messa a fuoco", appunto "presa di distanza", "sospensione del giudizio", che sono passaggi essenziali perché i giudici possano far valere - anche di fronte a se stessi - come unico criterio la fedeltà alla Costituzione.
 
E' questo il fulcro del breve e denso saggio di Zagrebelsky: la fedeltà alla sola Costituzione, di fronte a tutte le possibili "appartenenze altre", che inevitabilmente si fanno presenti alla coscienza e nel vissuto dei giudici; coscienza e vissuti che vengono vagliati di fronte a se stessi, e di fronte agli altri colleghi ("Ogni camera di consiglio, per nove anni, è perciò un esame, particolarmente severo nei primi tempi, quando prende forma la considerazione che accompagnerà il giudice, per tutta la durata della carica. Il passato conta solo per il nostro foro interno, per il giudizio che ciascuno di noi ha su se stesso, non per gli altri giudici che partecipano al collegio.", pp.63-64).

L'autonomia di giudizio - anche di fronte a proprie precedenti posizioni - sembra essere quasi - il paragone è azzardato, ma forse l'autore consentirebbe - il punto di arrivo di un percorso di ascesi, di continua negazione di sé. ("La camera di consiglio, oltre che un luogo fisico, è quindi anche e soprattutto un luogo spirituale: lo spazio di quella unità che di quindici fa uno", p.9). L'attenzione che Zagrebelsky porta ad alcuni dettagli procedurali, penso per esempio all'attenzione rivolta al problema delle dimissioni (pp.64-66, non a caso inserite in un capitolo dal titolo "Amor di sé"), servono a ribadire questo processo, questa attenzione che non è solo formale.

Il giudice deve saper prendere le distanze anche da quella "parti" di identità che sono più forti, come ad esempio l'appartenza religiosa, o etnica, o analoghe, "normalmente considerate naturali o, addirittura, virtuose: quelle che originano da cause interiori che non derivano da altri che da noi stessi"(p.93). Partendo dalla citazione della dissenting opinion del giudice Frankfurter in una causa in cui la Corte Suprema americana dichiarò l'obbligo scolastico del saluto alla bandiera come contrario alla libertà di coscienza (rovesciando un precedente orientamento), l'autore enuclea e cala nella realtà italiana la frase "noi giudici non siamo né ebrei, né cattolici, né agnostici" (pp.93-97), ribadendo la nettezza di una scelta laica che non può avere compromessi.

Ma come si giustifica politicamente una realtà così particolare, anche dal punto di vista della formazione, come la Corte? Qui Zagrebelsky offre un contributo che può servire - io credo - anche alle nostre discussioni quotidiane, richiamando la distinzione fra pactum societatis e pactum subiectionis (pp.25-26, poi ripresa in seguito più volte).
 
Il pactum societatis è il patto per cui si supera il conflitto interno alla comunità, si mette al bando la guerra civile, e si  dichiarano i valori che legano una società, quel minimo comune denominatore che fa sì che una collettività stia insieme, anche nel rispetto di alcuni valori fondamentali; il pactum subiectionis è la scelta di sottomettersi a un governo - a una maggioranza, in democrazia - al fine di poter arrivare a decisioni concrete e operative e regolare la vita della comunità. Il secondo è vincolato al primo, dipende dal primo.

Ma la politica che "regge" - diciamo così - il secondo patto valendosi del principio di maggioranza può ribellarsi al primo patto, attaccando - anche subdolamente - i valori che ci uniscono. Ed è di fronte a questi attacchi che il giudice costituzionale deve comunque saper continuare nella sua missione, educato - anche dalla forme dei riti, che oggi a volte non conosciamo o comprendiamo - a quella distanza che permette la chiarezza di giudizio e la libertà di giudizio. 

Quella distanza che fa sì che il giudice possa obbedire al monito divino "Non seguirai la maggioranza per agire male" (Es 23.2, riportato a p. 118): e, a conferma della centralità di questo monito, il titolo di uno dei capitoli fondamentali del libro (quello in cui vengono presentati i due pacta) è "Non tutto può mettersi ai voti".  

Non tutto può mettersi ai voti, e nessuna maggioranza può farci accettare ciò che è male. Questi i due pilastri della dignità del giudice costituzionale, e che andrebbero meglio compresi da tutti, proprio oggi.

Certo, alcuni toni e richiami del libro si possono più o meno condividere, e a volte il testo può apparire eccessivamente "severo", o "timoroso" e prudente rispetto ai cambiamenti che di volta in volta si sono proposti intorno al funzionamento della Corte, o alla sua composizione; ma il messaggio di Zagrebelsky appare comunque forte e attuale, e foriero di nuove riflessioni. 

Proprio quando appare urgente il momento della decisione, proprio quando troppo spesso ci si richiama facilmente al Carl Schmitt che caratterizza la politica con la dicotomia amico-nemico (si legga la nota 9 a p.38, dove si denuncia la banalità di siffatta estensione di un concetto bellico a tutta l'attività politica), ecco che allora deve essere più forte la attenzione al pactum societatis che ci lega, deve essere più forte il richiamo a ciò che ci unisce, rispetto a ciò che ci divide.  
 
Non certo per mantenere tutto uguale a se stesso, ma perché nella fretta del cambiamento non si perdano di vista i legami che ci dicono ciò che siamo come collettività. Al di là dei leader e delle urgenze -  mediatiche o reali - del momento.

Francesco Maria Mariotti

venerdì 20 settembre 2013

Costituzione: Maneggiare Con Cautela E Senza Fretta, Seguendo Le Regole

Indipendentemente dalle convinzioni politiche di ognuno (sono lontanissimo - ma proprio molto lontano - da taluni movimenti politici presenti oggi in Parlamento, ma questo non è importante) penso che la Costituzione andrebbe cambiata solo con l'applicazione integrale dell'articolo 138. 

Mi lascia molto perplesso la soluzione attualmente scelta. 
Anche perché le riforme costituzionali a mio avviso non sono una priorità.

(sul perché non lo siano ragionavo un po' di tempo fa su FB, parlando però più nel dettaglio di presidenzialismo. Riporto comunque la nota di seguito)

FMM

Presidenzialismo: Maschera Forte Senza Vera Sostanza?

3 maggio 2013 alle ore 0.42

C'è aria di presidenzialismo in Italia; voglia - corretta, da un certo punto di vista - di semplificare, razionalizzare, rafforzare il sistema di governo italiano. E desiderio di riconnettere le istituzioni ai cittadini.  Ma l'idea di un presidenzialismo alla francese continua personalmente a non convincermi.

Provo ad argomentare meglio, anche se sinteticamente, perché l'operazione complessiva che si sta impostando intorno a una riforma presidenziale non mi convince.

1. Abbiamo ancora bisogno di una figura di garanzia: è diverso se un Presidente - anche se nasce votato da un maggioranza - è chiamato a diventare Presidente di tutti (come è stato con Napolitano), oppure se un Presidente "nasce" in una competizione elettorale, di fatto legittimato quindi ad essere "pienamente di parte", per così dire. E in un sistema ad alto tasso di tensione politica, rischiamo di perdere un punto importante di mediazione e coesione nazionale.
(Per motivi simili ho forti perplessità anche in relazione all'idea di eleggere direttamente un Presidente della Unione Europea).

2. Un presidente "forte" di per sé non è sinonimo di governabilità e capacità di decisione; se non si calibra con attenzione tutta la architettura costituzionale "sottostante" il Presidente eletto, si rischia di costruire un gigante con i piedi d'argilla; questo può avvenire - per esempio - sia perché si fa una legge elettorale non risolutiva (e dunque il Parlamento rimane debole e questo minerebbe la solidità complessiva del sistema), sia perché (e forse soprattutto se) non si studiano tutti i dettagli degli "interna corporis", non dando al Presidente tutti i giusti poteri esecutivi. Già questo in un certo senso accade oggi alla figura del Presidente del Consiglio, che andrebbe - questa sì -rafforzata anche in relazione ad alcuni meccanismi di coordinamento e  di guida del Cosiglio dei ministri (si legga per esempio un interessante articolo di AffarInternazionali, che lega alcune problematiche del "caso Marò" con difficoltà di gestione unitaria da parte del Premier: "La cosa sembra assurda, e certamente è un danno grave per la credibilità del Paese, ma è resa possibile dalla natura scoordinata e pressoché anarchica del sistema italiano di governo. Benché il Presidente del Consiglio abbia la responsabilità di assicurare la linea politica del Governo, egli non è un Primo Ministro come in Gran Bretagna né ha i poteri del Cancelliere in Germania." Stefano Silvestri, Caso marò, chi non comanda in Italia, AffarInternazionali, 24 marzo 2013). Per dirla in un altro modo, se non si analizzano e si riequilibrano tutti i nodi del sistema il rischio è di creare una Maschera Forte, ma Imbelle. Per fare un esempio analogo, per certi aspetti: anche i mutamenti di legge elettorale che abbiamo fatto negli scorsi anni non hanno creato tutte le ricadute positive previste per lo stesso ordine di motivi; per esempio, perché si sono lasciate immutate  per molto tempo - se non vado errato - alcune norme interne delle Camere, così che non si è riusciti a evitare la frammentazione post-elettorale delle maggioranze anche vincenti e teoricamente "forti".

3. Guardiamo all'estero: quale nazione sta guidando l'Europa? la Germania. Berlino ha un sistema presidenziale? nient'affatto, ma ciò nonostante - secondo molti grazie all'Agenda 2010 di Schroeder - la Germania ha vinto le sue debolezze ed è ora la "locomotiva" del nostro continente. Senza entrare nel merito di quel complesso piano di riforme, va detto che comunque fu effettivamente radicale e fu impostato senza bisogno di un Presidente Forte, o simili "fantasie istituzionali". Al contrario, mi pare, della Francia. Che continua a "coprire" con un'ottima amministrazione e con un Presidenzialismo gaullista (ma che senza un De Gaulle non è egualmente efficace) la sua sempre più evidente incapacità di affrontare alcuni problemi. Per dirla in breve: non c'è sistema o riforma istituzionale che tenga, se manca la chiarezza di idee e la capacità di un sistema politico nel suo complesso di affrontare alcune sfide.

Questi, in breve, i motivi del no a un presidenzialismo che rischia di essere un'illusione. Possiamo fare - e dobbiamo fare - alcune vere riforme di sostanza, per esempio nel rendere più forte la figura del Premier, senza la necessità di rinunciare ad alcuni importanti simboli - e poteri - di garanzia.
E soprattutto, forse è necessario rinunciare all'illusione che la riforma delle regole sostituisca la capacità di trovare soluzioni ai problemi del Paese.

Francesco Maria Mariotti