(...) La vicenda della rapita ha assunto così contorni simili alla campagna che fece tingere di verde il mondo di Twitter all’epoca delle proteste in Iran nel 2009 o alle mobilitazioni a favore di Julian Assange e del suo Wikileaks. Stavolta però non si tratta di rivolte di piazza o battaglie per la libertà d’informazione. In ballo c’è invece una vita a rischio in uno dei luoghi del mondo più complessi e meno «coperti» dai media. Nella vicenda Urru è già difficile capire chi siano realmente i sequestratori, figuriamoci verificare la credibilità di fonti che si muovono tra emissari di Al Qaeda e terroristi tuareg.
Solo la «France Press», tra gli organi d’informazione più autorevoli, dispone di una qualche presenza nelle regioni tra Algeria e Mali: tutti gli altri si affidano a canali poco affidabili. La diplomazia e le trattative d’intelligence in questi casi si muovono con tempi lunghissimi e comunicazioni minime. In uno scenario simile piattaforme come Facebook o Twitter, dove tutto è immediato, rischiano di trasformare subito in «fatti» quelle che sono solo labili informazioni da confermare. Il caso Urru ora diventa un’occasione per riflettere: la credibilità e la velocità spesso non vanno d’accordo e il vecchio metodo delle verifiche ha bisogno di pazienza. La realtà non viaggia necessariamente al ritmo di un «tweet» al secondo anche se non ci resta che sperare che l’entusiasmo sia stato solo prematuro.
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