Il dramma della disoccupazione rischia di aggravarsi, nonostante si percepiscano i primi segnali di ripresa. Come già scritto in passato il rischio è che la situazione si aggravi per persone che sono rimaste ferme troppo tempo. Mi pare vadano in questo senso i ragionamenti che vengono svolti negli articoli di Nomisma che propongo di seguito.
Non so dire se la soluzione proposta (una sorta di patrimoniale che viene descritta nel secondo articolo in particolare; purtroppo in questo momento il link appare non raggiungibile) sia efficace, ma quel che è certo è che non può bastare toccare nuovamente le regole sul lavoro, anche perché i fattori importanti oggi - come forse quasi sempre - non sono quelli normativi.
Prima la politica la smetterà di discutere di questioni di riforme istituzionali, e darà una tregua al paese sulle questioni di "politica politicata", prima si potranno prendere in mano le questioni economiche e aiutare i cittadini a riacquistare fiducia nel futuro.
FMM
(...) Il mercato del lavoro del 2007 era segmentato, iniquo, escludente; ma di pieno impiego. Come valutare quello di oggi? Il raddoppio delle statistiche dalla disoccupazione non è stato causato da un peggioramento dei difetti di funzionamento che si avevano nel 2007, ma dalla recessione. Quella che si osserva è per la gran parte disoccupazione di tipo keynesiano, determinata da un livello inadeguato della domanda aggregata. I posti di lavoro disponibili sono pochi e razionati, al punto che la disoccupazione non può essere eliminata per quanto prolungato è lo sforzo di ricerca condotto dai lavoratori inoccupati e per quanto significativo è il taglio di retribuzione che essi sono disposti ad accettare pur di accedere a un lavoro. In queste condizioni vi è un’elevata probabilità che se un’impresa non assume un lavoratore in più non è tanto per un suo costo eccessivo, quanto perché, in un mercato asfittico e con rarefazione del credito, non saprebbe come utilizzarlo. A corollario di questa osservazione, è rilevabile che misure volte ad abbassare i costi espliciti e impliciti (come quelli di licenziamento) di ingresso nell’occupazione e le connesse rigidità, pur contribuendo a intensificare il ricambio nei flussi di entrata e uscita nel mercato del lavoro e a renderlo meno iniquo, non riescono a ridurre in modo sostanziale il livello complessivo della disoccupazione che dipende dallo stato dell’economia . Si modificherà con l’incipiente ripresa questa situazione? Dato il modesto tasso di crescita atteso, c’è il rischio che il miglioramento del mercato del lavoro risulti insufficiente. (...)
In mancanza di una ripresa adeguata, la disoccupazione tende a incancrenirsi. Già oggi si osserva che una quota pari al 57% dei disoccupati è costituita da individui che sono senza lavoro da oltre un anno; tra i disoccupati sotto i 25 anni questa percentuale è del 54%. Il distacco prolungato da un’attività produttiva deteriora le abilità lavorative, rendendo queste persone meno attraenti per un datore di lavoro. Ne consegue che le probabilità di reimpiego di coloro che sono a lungo senza un’occupazione risultino, in condizioni di ripresa economica, più basse rispetto agli altri lavoratori. Ciò può essere particolarmente penalizzante per i giovani, il cui ritardato ingresso nel mondo del lavoro determina danni permanenti nelle loro future carriere retributive e contributive. Ma gli effetti avversi della disoccupazione di lungo periodo riguardano più in generale il funzionamento dell’economia. L’ampliarsi del bacino di persone inoccupate per lungo tempo rischia di alimentare la disoccupazione strutturale, ovvero quella quota di senza lavoro che è resistente al miglioramento del ciclo economico e sotto la quale non si può scendere senza creare inflazione. La disoccupazione keynesiana se non corretta con una decisa ripresa della domanda può, dunque, tradursi in un peggioramento permanente degli equilibri del mercato del lavoro.(...)
Il peggioramento della relazione tra posti vacanti e disoccupazione (più disoccupati per ogni posto vacante) non è, infatti, un fenomeno generalizzato, ma è da attribuire alla componente dei disoccupati che sono senza lavoro da oltre un anno (figg. 2a e 2b). In altri termini, la pur bassissima domanda di lavoro è rimasta per una sua quota insoddisfatta perché si è modificata la composizione del bacino dei disoccupati con una crescita della presenza di quelli di lungo periodo, caratterizzati da una minore appetibilità rispetto alle necessità delle imprese e per questo motivo non più richiesti. (...)
L’aumento prolungato della disoccupazione keynesiana porta quindi con se, in assenza di correzione, i germi di un deterioramento strutturale che è difficile da curare. Il reinserimento dei disoccupati di lungo periodo nel mondo del lavoro solleva problemi in parte diversi da quelli che riguardano l’inclusione dei giovani che si affacciano nel mercato del lavoro o degli inattivi che tornano a cercare un’occupazione. Se un disoccupato da oltre un anno viene percepito per le sue caratteristiche come non rispondente alle esigenze delle imprese, può non essere sufficiente abbassarne il costo di reclutamento per renderlo appetibile. Occorrono efficienti politiche di formazione, riorientamento e inserimento nelle imprese in espansione, politiche di cui, però, l’Italia è oggi effettivamente priva. Esse vanno associate a un adeguato sistema di assistenza sociale (dal sussidio di disoccupazione per tutti coloro che perdono il lavoro a forme universali di sostegno del reddito) che miri sì ad attivare inclusione, ma che metta anche nel conto la possibilità di fallimenti nelle operazioni di reinserimento. Questi ultimi saranno infatti tanto più probabili in un’economia in cui l’attività crescerà a ritmi molto contenuti e dove l’offerta di lavoro supererà per un prolungato periodo la domanda, talché la concorrenza tra disoccupati per l’accesso a posti scarsi tenderà a mantenere persistentemente “fuori dai cancelli” le tipologie di lavoratori che risulteranno meno attraenti per le imprese.
Per contrastare lo scenario di bassa crescita che contraddistingue la nuova normalità italiana e tornare ad avvicinarsi fra cinque anni, anziché dieci, ai livelli di benessere che i cittadini del nostro Paese avevano nel 2007, occorrerebbe un’accelerazione dell’attività economica verso ritmi del 2-2,5% all’anno tra il 2014 e il 2018[1]. Le attuali previsioni, anche le più ottimistiche, proiettano dinamiche del PIL distanti da questo sentiero, con un mercato del lavoro che non tornerà, neppure nel 2023, ai livelli pre-crisi (6% di disoccupazione). Il freno a una ripresa più robusta deriva da un difetto di domanda aggregata, come mostrano le stime dei previsori circa un ampio output gap (differenza tra domanda effettiva e prodotto potenziale) per diversi anni a venire. Se non corretta, la mancanza di domanda rischia di tradursi in un deterioramento delle capacità di sviluppo della nostra economia, incidendo, insieme con la rarefazione del credito, su dimensione ed efficienza della base produttiva. Se ciò si verificasse, l’output gap si annullerebbe non tanto per l’aumento della domanda aggregata, quanto per l’adeguamento dell’offerta potenziale alle più basse capacità di assorbimento del Paese. Una domanda maggiore è dunque oggi essenziale, più ancora delle riforme strutturali, per salvaguardare il lato dell’offerta.
Per cercare di conseguire una ripresa più forte sarebbe necessario un mutamento sostanziale nel framework europeo, con passi significativi verso una politica UE per la crescita, il ridisegno dei tempi del risanamento fiscale dei paesi periferici, una maggiore simmetria nel riequilibrio competitivo intra-euro. Si tratterebbe di una rivoluzione copernicana rispetto all’approccio finora seguito. Implicherebbe il formarsi in Europa di un coeso gruppo di pressione, costituito dai paesi che condividono problemi e interessi comuni, come Italia, Francia e Spagna. Un mutamento di alleanze tutto da costruire: complesso, pur se non impossibile. Esso richiederebbe tempi lunghi che vanno, forse, al di là di quelli a disposizione per evitare che lo scenario di debole ripresa si trasformi in una prolungata depressione.
Per questo motivo si devono cercare strade interne, di natura anche straordinaria, per il sostegno della domanda e della crescita economica. Senza rompere con l’Europa, ma operando nel pieno rispetto delle regole del Fiscal compact e inscritte in Costituzione. Nell’ambito di questi stretti paletti, il bilancio pubblico può essere modificato, a parità di saldi, in senso espansivo; ciò può essere fatto in modo più efficace e consistente di come si è tentato nella Legge di stabilità, paralizzata da interessi contrapposti, veti reciproci, ambizioni insufficienti.(...)
La strada per reperire le risorse necessarie a realizzare in modo adeguato queste due priorità e, con esse, l’obiettivo della crescita passa per una mobilitazione straordinaria del risparmio di “chi più ha” e la sua distribuzione a favore delle fasce più povere della popolazione, con elevata propensione al consumo, e del mondo produttivo impegnato nella competizione internazionale.
Si possono immaginare diverse varianti di questa operazione. Una possibilità è seguire, su dimensioni del tutto diverse, la manovra impostata dal governo nella riduzione della pressione fiscale sui lavoratori e contributiva sulle imprese, aggiungendovi le misure necessarie a neutralizzare la povertà.(...)
http://www.nomisma.it/index. php/it/soluzione-10x100 [in questo momento - ore 22 circa del 17 gennaio 2014 - il link non è raggiungibile...]
La ripresina europea
Nell’area euro, dopo due anni consecutivi di contrazione, la Banca mondiale prevede una crescita dell’1,1% quest’anno e dell’1,4 e dell’1,5% rispettivamente nel 2015 e 2016. Negli Usa il Pil è stimato a +2,8% quest’anno dal +1,8% del 2013 e a +2,9% e +3% nel 2015 e nel 2016. In Cina il Pil nel 2014 salirà del 7,7%, invariato rispetto al 2013 ma rallenterà al 7,5% nel 2015. «Gli indicatori dell’economia globale - spiega il capo economista della Banca mondiale, Kaushik Basu - mostrano un miglioramento, ma non occorre essere particolarmente astuti per vedere dei pericoli insorgere sotto la superfice. L’area euro è fuori dalla recessione ma il reddito pro-capite continua a scendere in molti paesi. Ci aspettiamo che i paesi più avanzati crescano sopra il 5% nel 2014, con alcune aree meglio delle altre, con l’Angola all’8%, la Cina al 7,7%, l’India al 6,2%. Tuttavia è importante evitare la stasi politica».
Di questo passo, tra molte chiacchiere e ancora più indecisioni su riforme e tagli alla spesa, la discesa agli Inferi dell'Italia nell'eurozona, più che un rischio, appare una scelta quasi scientifica. Ormai però in perfetta solitudine. Non a caso, in un incontro a porte chiuse a Strasburgo il presidente della Commissione, Josè Barroso, ha richiamato il nostro paese al «coraggio delle riforme, senza le quali non può poi lamentare l'assenza di crescita e di lavoro».
di Adriana Cerretelli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Q3hhd
Si tratta della manifestazione palese che il legame nefasto tra banche e stati sovrani (il cosìdetto "doom loop"), lungi dall'essere stato spezzato, si è anzi rafforzato, nonostante i reiterati impegni di un vertice europeo dopo l'altro. Le banche hanno continuato a fare incetta di titoli sovrani, in una marcia ininterrotta. La liquidità eccezionale fornita dalla Bce (Ltro) è finita tutta lì: solo in Italia il portafoglio bancario di titoli di stato è raddoppiato da 200 miliardi di euro a fine 2011 a 403 miliardi dell'ultima rilevazione Bankitalia (novembre 2013). Nel contempo, com'è noto, i prestiti a imprese e famiglie si sono ridotti, e non vi è segno di ripresa – anzi, la stretta creditizia pare persino inasprirsi. È per questo che qualsiasi nuova iniezione di liquidità della Bce, se avviene, sarà probabilmente destinata esclusivamente al finanziamento delle imprese e delle famiglie, in una variante europea dello schema Funding for Lending della Banca d'Inghilterra.
di Alessandro Leipold - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/kipb1
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