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domenica 19 gennaio 2014

Le Trappole Della Retorica Politica, Le Questioni Realmente Importanti

Oggi sul tavolo della politica - e quindi sul "nostro" tavolo, perché la politica siamo anche noi, ci piaccia o meno - c'è la riforma elettorale. Argomento in realtà non molto importante, soprattutto se non viene accompagnato a riforme che stabilizzino realmente i governi (e che difficilmente si trovano nella legge che regola il voto; penso per esempio a sistemi di sfiducia costruttiva o regole per la formazione dei gruppi parlamentari) o che diano realmente poteri forti al premier e al governo (comunque nulla a che vedere con la "cosmesi" del presidenzialismo, secondo me).

La discussione sulle proposte che stanno girando è inoltre viziata dal fatto che ci siamo incastrati - oserei dire che ci siamo autointrappolati - su una questione mal posta ("permetteteci di scegliere il nostro rappresentante"), che in realtà non è così importante, e che rischia di "obbligarci" a giudicare negativamente scelte che non sono forse così strane (Stefano Ceccanti, costituzionalista, in queste ore sta ricordando come l'anomalia - nello scenario europeo - siano le preferenze, non le liste bloccate, già in uso in altri paesi).

Da questo caso forse si capisce che in politica è necessario agire con cautela anche nei momenti polemici, indirizzando correttamente il cosa e il come della critica (a volte soprattutto il come, evitando sempre toni apocalittici). Troppo spesso una critica mal posta prima (penso per esempio alla critica generalizzata alla Bossi-Fini sull'immigrazione, mescolata - temo impropriamente - alla questione della punibilità penale dell'immigrazione clandestina) rischia di far apparire i compromessi inevitabili del poi tutti inaccettabili.

Forse ho speso troppe parole; andiamo dunque alle questioni veramente importanti: It's the economy, stupid...
E quindi, anche in vista delle prossime scadenze elettorali per l'Europa, mi permetto di segnalare argomenti di riflessione soprattutto economica di cui trovate estratti di seguito:
  1. A proposito di Europa e di retorica della politica: interessante articolo sul Fiscal Compact, che forse non è quella mostruosità draconiana che sembra essere passata nell'immaginario; tema su cui è il caso di tornare in futuro per approfondire ulteriormente.
  2. A proposito di semplificazioni: funzionano le ricette del Fondo Monetario Internazionale? Forse sono troppo astratte? Un bell'articolo di Fabrizio Goria sui paesi che in Europa le hanno adottate e che si stanno riprendendo.
  3. Cosa fare contro la disoccupazioneAlcuni articoli - in particolare un paio del centro studi Nomisma - per tentare di trovare strumenti con cui reagire; sicuramente non basterà la ripresa e non saranno necessariamente utili gli ennesimi correttivi sul piano del diritto del lavoro.
  4. Come leggere il periodo attuale? Ci sarà un ritorno della mano pubblica nell'economiaun articolo molto interessante di Stefano Cingolani per provare a fare un punto della situazione.
  5. In ultimo tento di presentare con il richiamo di un paio di articoli la figura di Stanley Fisher, keynesiano anomalo e pragmatico, che avrà un ruolo importante nella FED, a fianco del nuovo Governatore, Janet Yellen.
Buona lettura

Francesco Maria Mariotti

Il nuovo mostro globale si chiama stag-deflazione (da Linkiesta.it)

(...) Scelte monetarie coraggiose (americane, ma anche europee) hanno impedito che la grande recessione diventasse una grande depressione. Adesso, però, si vede che le banche centrali da sole non riescono ad avviare un nuovo ciclo di sviluppo. Quanto alle politiche fiscali, sono alla frutta. Se è così, ci aspetta un futuro dominato da spinte negative: popolazione in calo, aspettative crescenti e risorse calanti, mancanza di un acceleratore della forza e pervasività dell’elettronica, e soprattutto di un paradigma forte come la rivoluzione liberista che ha risposto al cambiamento dei termini di scambio provocato dall’aumento improvviso e fortissimo del petrolio e delle materie prime. Teoria e prassi allora si mossero all’unisono, in questo modo ebbero un ruolo importante, anzi determinante. Oggi non è così anche se la forza delle cose riporta in auge la mano pubblica come alternativa ai fallimenti della mano invisibile del mercato.
Il ritorno dello stato, in realtà, non appare un passo avanti, ma semmai due passi indietro ed è tutto giocato sul breve periodo; nessuno può più pensare che un governo possa gestire l’automobile, l’acciaio, le telecomunicazioni. Tanto meno nell’era web. Internet è il moderno monumento alla libertà individuale e al mercato. (...) 

Il driver, dunque, non può essere il governo. Anche perché non è possibile fare il keynesismo in un solo paese: era vero quando c’erano le frontiere nazionali è ancor più vero oggi. Lo sanno anche i keynesiani i quali, infatti, chiedono qualche forma di controllo sui capitali o di tassazione alle attività finanziarie. Con il rischio di un grave effetto boomerang: il libero scambio delle merci e dei capitali è sempre stato (fin dall’Ottocento) la chiave della crescita mondiale e il ristagno odierno s’accompagna a un inaridirsi delle fonti di finanziamento e degli investimenti. Il flusso tra le economie del G20 era pari al 20% del prodotto totale nel 2007, con la recessione è sceso al 4,3%. Paul Krugman (economista e premio Nobel, ndr) sostiene che il limite delle attuali politiche di deficit spending è che non si è speso abbastanza, i nuovi keynesiani, in altre parole, non sono puri e duri come i vecchi. Eppure, è chiaro che ormai nemmeno il governo degli Stati Uniti il quale tradizionalmente ha sempre avuto minori vincoli esterni, può spendere e spandere quanto vuole. Il signoraggio del dollaro come lo chiamava il generale de Gaulle s'è ridotto. Persino negli anni del boom il mercato non riusciva a finanziare i consumi e gli investimenti degli americani i quali si sono messi nelle mani dei cinesi; figuriamoci adesso. E anche se ci fosse un governo mondiale, non sarebbe mai in grado di controllare il gran gioco dello scambio, come lo chiamava Fernand Braudel. E per fortuna.(...)

venerdì 17 gennaio 2014

Disoccupazione: Come Reagire? Basterà La Ripresa?

Il dramma della disoccupazione rischia di aggravarsi, nonostante si percepiscano i primi segnali di ripresa. Come già scritto in passato il rischio è che la situazione si aggravi per persone che sono rimaste ferme troppo tempo. Mi pare vadano in questo senso i ragionamenti che vengono svolti negli articoli di Nomisma che propongo di seguito. 

Non so dire se la soluzione proposta (una sorta di patrimoniale che viene descritta nel secondo articolo in particolare; purtroppo in questo momento il link appare non raggiungibile) sia efficace, ma quel che è certo è che non può bastare toccare nuovamente le regole sul lavoro, anche perché i fattori importanti oggi - come forse quasi sempre - non sono quelli normativi

Prima la politica la smetterà di discutere di questioni di riforme istituzionali, e darà una tregua al paese sulle questioni di "politica politicata", prima si potranno prendere in mano le questioni economiche e aiutare i cittadini a riacquistare fiducia nel futuro.

FMM 

(...) Il mercato del lavoro del 2007 era segmentato, iniquo, escludente; ma di pieno impiego. Come valutare quello di oggi? Il raddoppio delle statistiche dalla disoccupazione non è stato causato da un peggioramento dei difetti di funzionamento che si avevano nel 2007, ma dalla recessione. Quella che si osserva è per la gran parte disoccupazione di tipo keynesiano, determinata da un livello inadeguato della domanda aggregata. I posti di lavoro disponibili sono pochi e razionati, al punto che la disoccupazione non può essere eliminata per quanto prolungato è lo sforzo di ricerca condotto dai lavoratori inoccupati e per quanto significativo è il taglio di retribuzione che essi sono disposti ad accettare pur di accedere a un lavoro. In queste condizioni vi è un’elevata probabilità che se un’impresa non assume un lavoratore in più non è tanto per un suo costo eccessivo, quanto perché, in un mercato asfittico e con rarefazione del credito, non saprebbe come utilizzarlo. A corollario di questa osservazione, è rilevabile che misure volte ad abbassare i costi espliciti e impliciti (come quelli di licenziamento) di ingresso nell’occupazione e le connesse rigidità, pur contribuendo a intensificare il ricambio nei flussi di entrata e uscita nel mercato del lavoro e a renderlo meno iniquo, non riescono a ridurre in modo sostanziale il livello complessivo della disoccupazione che dipende dallo stato dell’economia .  Si modificherà con l’incipiente ripresa questa situazione? Dato il modesto tasso di crescita atteso, c’è il rischio che il miglioramento del mercato del lavoro risulti insufficiente. (...)
In mancanza di una ripresa adeguata, la disoccupazione tende a incancrenirsi. Già oggi si osserva che una quota pari al 57% dei disoccupati è costituita da individui che sono senza lavoro da oltre un anno; tra i disoccupati sotto i 25 anni questa percentuale è del 54%. Il distacco prolungato da un’attività produttiva deteriora le abilità lavorative, rendendo queste persone meno attraenti per un datore di lavoro. Ne consegue che le probabilità di reimpiego di coloro che sono a lungo senza un’occupazione risultino, in condizioni di ripresa economica, più basse rispetto agli altri lavoratori. Ciò può essere particolarmente penalizzante per i giovani, il cui ritardato ingresso nel mondo del lavoro determina danni permanenti nelle loro future carriere retributive e contributive. Ma gli effetti avversi della disoccupazione di lungo periodo riguardano più in generale il funzionamento dell’economia. L’ampliarsi del bacino di persone inoccupate per lungo tempo rischia di alimentare la disoccupazione strutturale, ovvero quella quota di senza lavoro che è resistente al miglioramento del ciclo economico e sotto la quale non si può scendere senza creare inflazione. La disoccupazione keynesiana se non corretta con una decisa ripresa della domanda può, dunque, tradursi in un peggioramento permanente degli equilibri del mercato del lavoro.(...)
Il peggioramento della relazione tra posti vacanti e disoccupazione (più disoccupati per ogni posto vacante) non è, infatti, un fenomeno generalizzato, ma è da attribuire alla componente dei disoccupati che sono senza lavoro da oltre un anno (figg. 2a e 2b). In altri termini, la pur bassissima domanda di lavoro è rimasta per una sua quota insoddisfatta perché si è modificata la composizione del bacino dei disoccupati con una crescita della presenza di quelli di lungo periodo, caratterizzati da una minore appetibilità rispetto alle necessità delle imprese e per questo motivo non più richiesti. (...)
L’aumento prolungato della disoccupazione keynesiana porta quindi con se, in assenza di correzione, i germi di un deterioramento strutturale che è difficile da curare. Il reinserimento dei disoccupati di lungo periodo nel mondo del lavoro solleva problemi in parte diversi da quelli che riguardano l’inclusione dei giovani che si affacciano nel mercato del lavoro o degli inattivi che tornano a cercare un’occupazione. Se un disoccupato da oltre un anno viene percepito per le sue caratteristiche come non rispondente alle esigenze delle imprese, può non essere sufficiente abbassarne il costo di reclutamento per renderlo appetibile. Occorrono efficienti politiche di formazione, riorientamento e inserimento nelle imprese in espansione, politiche di cui, però, l’Italia è oggi effettivamente priva. Esse vanno associate a un adeguato sistema di assistenza sociale (dal sussidio di disoccupazione per tutti coloro che perdono il lavoro a forme universali di sostegno del reddito) che miri sì ad attivare inclusione, ma che metta anche nel conto la possibilità di fallimenti nelle operazioni di reinserimento. Questi ultimi saranno infatti tanto più probabili in un’economia in cui l’attività crescerà a ritmi molto contenuti e dove l’offerta di lavoro supererà per un prolungato periodo la domanda, talché la concorrenza tra disoccupati per l’accesso a posti scarsi tenderà a mantenere persistentemente “fuori dai cancelli” le tipologie di lavoratori che risulteranno meno attraenti per le imprese.

Per contrastare lo scenario di bassa crescita che contraddistingue la nuova normalità italiana e tornare ad avvicinarsi fra cinque anni, anziché dieci, ai livelli di benessere che i cittadini del nostro Paese avevano nel 2007, occorrerebbe un’accelerazione dell’attività economica verso ritmi del 2-2,5% all’anno tra il 2014 e il 2018[1]. Le attuali previsioni, anche le più ottimistiche, proiettano dinamiche del PIL distanti da questo sentiero, con un mercato del lavoro che non tornerà, neppure nel 2023, ai livelli pre-crisi (6% di disoccupazione). Il freno a una ripresa più robusta deriva da un difetto di domanda aggregata, come mostrano le stime dei previsori circa un ampio output gap (differenza tra domanda effettiva e prodotto potenziale) per diversi anni a venire. Se non corretta, la mancanza di domanda rischia di tradursi in un deterioramento delle capacità di sviluppo della nostra economia, incidendo, insieme con la rarefazione del credito, su dimensione ed efficienza della base produttiva. Se ciò si verificasse, l’output gap si annullerebbe non tanto per l’aumento della domanda aggregata, quanto per l’adeguamento dell’offerta potenziale alle più basse capacità di assorbimento del Paese. Una domanda maggiore è dunque oggi essenziale, più ancora delle riforme strutturali, per salvaguardare il lato dell’offerta.
Per cercare di conseguire una ripresa più forte sarebbe necessario un mutamento sostanziale nel framework europeo, con passi significativi verso una politica UE per la crescita, il ridisegno dei tempi del risanamento fiscale dei paesi periferici, una maggiore simmetria nel riequilibrio competitivo intra-euro. Si tratterebbe di una rivoluzione copernicana rispetto all’approccio finora seguito. Implicherebbe il formarsi in Europa di un coeso gruppo di pressione, costituito dai paesi che condividono problemi e interessi comuni, come Italia, Francia e Spagna. Un mutamento di alleanze tutto da costruire: complesso, pur se non impossibile. Esso richiederebbe tempi lunghi che vanno, forse, al di là di quelli a disposizione per evitare che lo scenario di debole ripresa si trasformi in una prolungata depressione.
Per questo motivo si devono cercare strade interne, di natura anche straordinaria, per il sostegno della domanda e della crescita economica. Senza rompere con l’Europa, ma operando nel pieno rispetto delle regole del Fiscal compact e inscritte in Costituzione. Nell’ambito di questi stretti paletti, il bilancio pubblico può essere modificato, a parità di saldi, in senso espansivo; ciò può essere fatto in modo più efficace e consistente di come si è tentato nella Legge di stabilità, paralizzata da interessi contrapposti, veti reciproci, ambizioni insufficienti.(...)
La strada per reperire le risorse necessarie a realizzare in modo adeguato queste due priorità e, con esse, l’obiettivo della crescita passa per una mobilitazione straordinaria del risparmio di “chi più ha” e la sua distribuzione a favore delle fasce più povere della popolazione, con elevata propensione al consumo, e del mondo produttivo impegnato nella competizione internazionale.
Si possono immaginare diverse varianti di questa operazione. Una possibilità è seguire, su dimensioni del tutto diverse, la manovra impostata dal governo nella riduzione della pressione fiscale sui lavoratori e contributiva sulle imprese, aggiungendovi le misure necessarie a neutralizzare la povertà.(...)
http://www.nomisma.it/index.php/it/soluzione-10x100 [in questo momento - ore 22 circa del 17 gennaio 2014 - il link non è raggiungibile...]

La ripresina europea
Nell’area euro, dopo due anni consecutivi di contrazione, la Banca mondiale prevede una crescita dell’1,1% quest’anno e dell’1,4 e dell’1,5% rispettivamente nel 2015 e 2016. Negli Usa il Pil è stimato a +2,8% quest’anno dal +1,8% del 2013 e a +2,9% e +3% nel 2015 e nel 2016. In Cina il Pil nel 2014 salirà del 7,7%, invariato rispetto al 2013 ma rallenterà al 7,5% nel 2015. «Gli indicatori dell’economia globale - spiega il capo economista della Banca mondiale, Kaushik Basu - mostrano un miglioramento, ma non occorre essere particolarmente astuti per vedere dei pericoli insorgere sotto la superfice. L’area euro è fuori dalla recessione ma il reddito pro-capite continua a scendere in molti paesi. Ci aspettiamo che i paesi più avanzati crescano sopra il 5% nel 2014, con alcune aree meglio delle altre, con l’Angola all’8%, la Cina al 7,7%, l’India al 6,2%. Tuttavia è importante evitare la stasi politica».

Di questo passo, tra molte chiacchiere e ancora più indecisioni su riforme e tagli alla spesa, la discesa agli Inferi dell'Italia nell'eurozona, più che un rischio, appare una scelta quasi scientifica. Ormai però in perfetta solitudine. Non a caso, in un incontro a porte chiuse a Strasburgo il presidente della Commissione, Josè Barroso, ha richiamato il nostro paese al «coraggio delle riforme, senza le quali non può poi lamentare l'assenza di crescita e di lavoro». 
di Adriana Cerretelli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Q3hhd

Si tratta della manifestazione palese che il legame nefasto tra banche e stati sovrani (il cosìdetto "doom loop"), lungi dall'essere stato spezzato, si è anzi rafforzato, nonostante i reiterati impegni di un vertice europeo dopo l'altro. Le banche hanno continuato a fare incetta di titoli sovrani, in una marcia ininterrotta. La liquidità eccezionale fornita dalla Bce (Ltro) è finita tutta lì: solo in Italia il portafoglio bancario di titoli di stato è raddoppiato da 200 miliardi di euro a fine 2011 a 403 miliardi dell'ultima rilevazione Bankitalia (novembre 2013). Nel contempo, com'è noto, i prestiti a imprese e famiglie si sono ridotti, e non vi è segno di ripresa – anzi, la stretta creditizia pare persino inasprirsi. È per questo che qualsiasi nuova iniezione di liquidità della Bce, se avviene, sarà probabilmente destinata esclusivamente al finanziamento delle imprese e delle famiglie, in una variante europea dello schema Funding for Lending della Banca d'Inghilterra.
di Alessandro Leipold - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/kipb1

domenica 12 gennaio 2014

Chi è Stanley Fischer?

(...) Ma perché Fischer le credenziali di Fischer sono così elevate? Il banchiere centrale è un keynesiano atipico, senza pregiudizi o dogmi particolari. «Ritengo che il lavoro di John Maynard Keynes debba essere riconsiderato, in meglio, dopo questa crisi. E’ sotto gli occhi di tutti quanto sia il suo valore», disse in un’intervista nel corso del 2010. Per essere un keynesiano, ammira anche Milton Friedman, che fu suo collega quando, dal 1970 al 1973, ha insegnato all’Università di Chicago. «Le ragioni della crisi globale sono tante, non si può solo dare la colpa al liberismo, professando le politiche keynesiane come le più corrette per l’uscita dalla fase critica», spiegò Fischer. Un approccio tanto pragmatico quanto intellettualmente corretto. Il banchiere centrale israelo-statunitense aveva messo in guardia più di una volta, fra il 2005 e il 2007, gli eccessi visti nel mercato immobiliare statunitense. Secondo lui si doveva iniziare a sterilizzare liquidità fin dal principio di bolla, ma la Fed non fece così, anzi. Di fatto, era un gioco, quello del credito facile e dei subprime, che faceva gola a tutti. Alla banca centrale, alle banche statunitensi e ai cittadini. Ognuno ne traeva benefici, ma i costi sono stati devastanti. «Era facile comprendere cosa sarebbe successo coi subprime, ma si è deciso di chiudere entrambi gli occhi. Lo shock è stato forte», commentò Fischer. Del resto, conosceva bene queste dinamiche. (...)


Quale corso prenderà la Federal Reserve nel dopo-Bernanke? La banca centrale americana entra nel vivo del nuovo anno con al timone due personalità nuove. Sebbene l'approccio monetario dell'istituto non sia destinato a cambiare, resta da vedere come l'imminente numero uno Janet Yellen se la intenderà con Stanley Fischer, ex governatore della banca centrale di Israele, scelto oggi da Obama per diventare il numero due della banca centrale americana. Il duo è promettente. Con curricula eccellenti Yellen e Fischer, per citare il presidente degli Stati Uniti, costituiranno un «team fantastico». Ma forse qualche diversità di vedute tra i due non mancherà. 

di Stefania Spatti - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/zxtRT

sabato 25 febbraio 2012

Un po' Keynes, un po' Calvino (dal Sole24Ore)


È lo Stato ora che deve fare la sua parte di pagatore affidabile. Sono in gioco 70 miliardi di mancati pagamenti ai fornitori. Se l'amministrazione pubblica – ai vari livelli – onorasse i suoi impegni, oltre a dare un doveroso segnale etico, darebbe la più forte spinta di spesa pubblica immaginabile oggi. Un po' Keynes, un po' Calvino.

mercoledì 18 gennaio 2012

Debito, Figlio d'Europa

Alcuni articoli per continuare a riflettere sulla crisi economica - e politica! - che ci sta accompagnando ormai da diversi anni, da alcuni mesi però più intensamente.

Via via che si va avanti, ci si rende conto che ormai una delle mosse necessarie è rompere l'equilibrio costituzionale europeo, permettendo che la BCE garantisca totalmente il debito europeo. 

Forse sono troppo ottimista, ma penso che Mario Draghi e i "tecnici" (veri politici) dell'EuroTower stiano preparando qualche mossa in questo senso: anche l'allarmismo dei giorni scorsi - quasi "fuori tono" rispetto ai suoi soliti standard - sembra rappresentare una pressione fatta sui politici, al fine di riuscire a ottenere la "copertura politica" per mosse straordinarie.

In questo momento - come bene spiegato da uno degli articoli - Draghi gioca più "sottotraccia", ma facendo politica a pieno titolo: politica espansionistica rispetto alle politiche restrittive dei governi.

In ultimo, un articolo molto critico sull'operato del governo di Paolo Savona; buone ragioni, che personalmente non condivido appieno, ma che sono sempre un ottimo stimolo di riflessione

Francesco Maria Mariotti



(...)Ma per chiudere questi buchi, e rendere improbabile tali scenari, e quindi abbassare lo spread l'Europa può fare qualcosa. Se a garanzia di quel debito, ci fosse la tassazione europea allora sarebbe più improbabile che ci trovi davanti al rischio default. Se la Bce riconoscesse quel debito come figlio legittimo della sua moneta, non solo gli spread si abbasserebbero da subito rendendo meno probabile scenari del genere, ma si avrebbe la garanzia ultima che l'Italia non sarebbe da sola. (...) di Pierpaolo Benigno - Il Sole 24 Ore - leggi su Cara Europa, adesso tocca a te
 
Dimezzato il direttorio franco-tedesco e declassato il Fondo europeo salva stati, non c’è tregua borsistica che tenga: la crisi europea, vista dai mercati, è sempre più sistemica e sempre meno legata ai problemi dei singoli paesi. Non a caso, dopo gli ultimi fendenti delle agenzie di rating, aumentano le pressioni degli stati dell’Eurozona per un intervento deciso della Banca centrale europea. L’Istituto centrale presieduto da Mario Draghi – è il ragionamento di un numero crescente di cancellerie nell’Eurozona – è forse l’unica istituzione con la potenza di fuoco necessaria ad abbassare il costo del rifinanziamento del debito pubblico. E a Francoforte la pressione internazionale si comincia a sentire; ieri anche il rigorista Ewald Nowotny, governatore della Banca centrale austriaca e membro del direttorio della Bce, ha aperto a una politica più espansiva: “Stiamo per discutere possibili alternative – ha detto pur precisando di non essere favorevole all’acquisto di bond statali – Si tratta di una discussione che copre tutto lo spettro della politica monetaria”.(...)  AAA, garante dell'euro cercasi
 
(...) Terza affermazione importante: Mario Draghi ribadisce che sarà l'agente del Fondo Salva Stati. Notizia qualificante anche questa. Se egli sarà l'agente del Fondo non farà la banca degli Stati ma realizzerà al meglio le scelte del Fondo di ritirare dal mercato titoli di Stato. Ottimizzando la missione del Fondo e non passando il confine che lo statuto della BCE gli impone: non monetizzare il deficit pubblico sottoscrivendo debiti dello Stato. L'undicesimo comandamento del monetarismo fiscale che piace alla cultura politica tedesca e che quella francese tende ad imitare. Mario Monti cerca compromessi su questo terreno, imponendo il monetarismo fiscale in Italia per ottenere dall'asse franco tedesco una politica monetaria keynesiana ed amica della crescita. Ed ecco la originalità di Mario Draghi: i Governi fanno politiche fiscali restrittive e la banca centrale, vincolata da una filosofia di fondo costruita sui principi del monetarismo fiscale, fa una politica keynesiana ed espansiva.
Cose che capitano e che spiegano come le regole vadano interpretate. Ma che la cosa che conta davvero sia l'etica delle conseguenze nei comportamenti di chi, interpretandole, assume decisioni nel ruolo che ricopre.(...) Mario Draghi indica ma non svela la politica BCE
 
(...) Se avessimo provveduto a rimborsare 250 miliardi di titoli dello Stato cedendo parte del patrimonio pubblico saremmo restati fuori per oltre un anno dallo stress di un rinnovo dell'indebitamento statale in scadenza. Non avremmo capitalizzato l'aumento degli oneri finanziari sul debito e risparmiato una cifra prossima all'aumento delle tasse deciso.
Alcune soluzioni tecniche erano state avanzate, restando inascoltate, da persone mosse dal desiderio di contribuire al bene comune. Non uno dei governi che si sono succeduti ha dato una risposta al perché non si sia provveduto a questa operazione prima di ogni altra forma di intervento deflazionistico e iniquo; considero indegno che si sia inciso sui pensionati e sui redditi da lavoro, oltre che sui risparmi accumulati dopo avere assolto all'obbligo fiscale per tenersi stretto il patrimonio pubblico e lasciare intonse le inefficienze della pubblica amministrazione e gli sprechi della politica.
Si parla tanto di crescita e si chiede al governo di propiziarla, dopo essere stato, con l'Unione europea, membro attivo della sua caduta. Si ripropone invece il tema delle liberalizzazioni. Non è dato sapere ancora quali saranno, ma su un punto gli economisti sono d'accordo: la liberalizzazione di cui necessitiamo per crescere è quella dall'oppressione fiscale e dall'ingerenza illiberale dello Stato sui fatti della nostra vita. Abbiamo invece più tasse e meno libertà.
Dopo essersi impossessato di quasi la metà del reddito nazionale, lo Stato comincia ad aggredire il popolo delle formiche. Un mio maestro di scuola liberista, Karl Brunner, sosteneva che il problema degli squilibri è non averli e, quando li si ha, occorre porre grande cautela nel riassorbirli, perché se si sbaglia nel farlo, si possono causare più danni di quelli che si volevano evitare. Credo che siamo ormai in questa situazione.