domenica 12 gennaio 2014

Uomo di guerra, uomo di pace: la morte di Ariel Sharon (rassegna stampa)

(...) Alcune delle sue gesta vengono ancora oggi insegnate ai cadetti di West Point perchè il coraggio e l’intuito lo portano a diventare uno stratega di successo. A cominciare dal colpo di mano che rovescia le sorti della Guerra del Kippur. Congedato da pochi mesi, Sharon viene sorpreso come tanti altri dall’attacco a sorpresa di Egitto e Siria nell’ottobre 1973, si precipita sul fronte del Sinai con un’auto civile, assume la guida di un’unità di riservisti e supera le linee nemiche senza ingaggiare gli avversari: attraversa il Canale di Suez protetto dalle tenebre e crea una testa di ponte fra la Seconda e Terza Armata egiziana, tagliando i rifornimenti dell’una e isolando l’altra. È il blitz che cambia le sorti della guerra, scongiura la disfatta israeliana e porta le avanguardie di Sharon a 101 km dal Cairo. L’immagine di Sharon, con una ferita bendata sulla testa, che guida le truppe sul lato opposto del Canale gli consegna una popolarità che gli apre a strada della vita politica.   (...)

Quando Begin viene rieletto nel 1981 lo nomina ministro della Difesa ed è in questa veste che diviene il protagonista dell’operazione militare “Pace in Galilea”: l’attacco contro le basi dell’Olp in Libano in risposta all’attentato contro un diplomatico israeliano a Londra. È una guerra che Sharon spinge fino ad arrivare a Beirut. Riesce nell’intento di espellere Yasser Arafat ed i suoi guerriglieri ma rimane imbrigliato nella strage di Sabra e Chatila. Sono i campi profughi nei quali, fra il 16 e il 18 settembre, vengono uccisi fra 800 e 3.500 palestinesi per mano delle milizie falangiste cristiano maronite guidate da Elie Hobeika ma il perimetro esterno dei campi è sotto il controllo degli israeliani e la Commissione Kahan, insediata a Gerusalemme, giudica Sharon “indirettamente responsabile” del massacro per aver “ignorato il pericolo di un bagno di sangue e non aver fatto nulla per impedirlo”.  

È il momento più difficile della sua vita dal quale si risolleva grazie all’impegno del Likud che lo porta a ricoprire più ministeri fino all’elezione a premier nel febbraio 2001. A sfidarlo è la Seconda Intifada, a colpi di kamikaze dentro autobus e ristoranti, che riesce a piegare con due mosse: l’operazione “Muro di Difesa” che lancia nel 2002 dentro i territori palestinesi ordinando ai soldati di “entrare nelle città sparando” e la successiva edificazione di una barriera di separazione fra insediamenti ebraici e villaggi arabi in Cisgordania. 
Sharon si convince a tal punto della necessità della separazione fisica dai palestinesi che nell’agosto del 2005 decide l’espulsione forzata di circa 10 mila israeliani da 21 insediamenti a Gaza per consentire alla Striscia di diventare il primo nucleo del nuovo Stato di Palestina. (...)


Al momento dell’ictus era primo ministro israeliano dal 2001, ma la sua carriera politica era iniziata molto prima, con parecchi incarichi di governo. Sharon era ampiamente considerato come un rappresentante della linea dei “falchi”, meno propensa a fare concessioni nei rapporti con i palestinesi, questione centrale della politica israeliana. Dopo essersi costruito una solida reputazione come difensore dei coloni ed essere stato eletto nel partito di destra Likud, Sharon stupì molti mettendo in atto il ritiro dei soldati e l’abbandono degli insediamenti nella Striscia di Gaza, nell’estate del 2005. Tra agosto e settembre, i coloni che non avevano accettato il piano di Sharon nella ventina di insediamenti della Striscia (e in quattro insediamenti nel nord della Cisgiordania compresi nel piano) furono sgomberati con la forza dall’esercito. Poco tempo dopo, Sharon annunciò l’abbandono del Likud, mentre le sue ultime mosse gli avevano attirato grandi critiche dall’ala destra del suo partito e un inedito supporto dall’elettorato di sinistra. Nel novembre 2005 Sharon fondò Kadima, un partito centrista e liberale. Nella cruciale questione israelo-palestinese, Kadima portava avanti il principio del “riallineamento”, ovvero del ritiro parziale da alcune zone della Cisgiordania occupata.


Da molti anni circola una storia che sfiora la leggenda. A Beirut, il 30 agosto del 1982, durante l'operazione "Pace in Galilea", contrassegnata dall'invasione israeliana del Libano e dalla strage dei palestinesi a Sabra e Shatila, un cecchino israeliano inquadrò nel mirino del suo fucile Yasser Arafat. Ma non tirò il grilletto. A salvare la vita al leader palestinese fu Ariel Sharon con un ordine all'ultimo minuto del quale non è mai stata data una spiegazione convincente. Che questa vicenda sia fondata o meno, il racconto rappresenta in maniera quasi emblematica una stagione politica mediorientale segnata per mezzo secolo dall'odio che ha diviso il capo storico dei palestinesi e il generale israeliano che più di ogni altro ha contrastato nella sua vita le aspirazioni di un popolo senza Stato. 

di Alberto Negri con un articolo di Ugo Tramballi - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/I2ii8

Quel ritiro lacera il Paese, ma non ferma l'ex generale. Arik sa che la scommessa di «due Stati per due popoli» - ratificata per la prima volta da un leader israeliano - si gioca in Cisgiordania e a Gerusalemme.
Per realizzarla non esita a promettere ai palestinesi la gran parte della Cisgiordania. Subito dopo si sbarazza del Likud e dà vita ad un nuovo partito centrista battezzato Kadima ovvero «avanti». Rapito dall'ennesima battaglia visionaria, non si cura dei rischi banali affrontati nel corso di una vita disordinata dove neppure colesterolo, obesità e alta pressione frenano una smodata voglia di cibo. Il primo avvertimento arriva il 18 dicembre 2005 quando un piccolo ictus lo appanna per qualche minuto. Ma Arik non tollera i rinvii. Si rialza la sera stessa, riprende la corsa verso quelle elezioni dove solo la vittoria di Kadima può garantire la realizzazione del suo progetto di pace. Ma il 4 gennaio 2006 l'ictus morde ancora. Per gli otto anni successivi vegeta in quel mondo di ombre dove la vita non è più tale e la morte non lo è ancora. I palestinesi forse non andranno al suo funerale, ma un giorno dovranno ammetterlo, solo la malattia e la morte hanno impedito ad Arik di vincere anche in tempo di pace e trasformarsi nel migliore dei loro nemici.
(...) Sharon, nella vita, ha conosciuto tutto. E’ stato un uomo di guerra e un abile combattente, ma è stato anche l’ineffabile bugiardo che, da ministro della difesa, costrinse alle dimissioni il suo primo ministro Menachem Begin, dopo la strage di Sabra e Chatila. Strage che fu compiuta dai falangisti cristiani libanesi, mentre i soldati israeliani occupanti si voltavano dall’altra parte. E’ stato un oltranzista, che non si vergognava di dire in pubblico che il presidente palestinese Yasser Arafat doveva «essere ucciso». 
Ma è stato anche il leader che, vinte le elezioni e diventato primo ministro, decise di ritirarsi unilateralmente dalla Striscia di Gaza, smantellando tutti gli insediamenti ebraici che vi si trovavano. E’ stato l’anima della destra più estrema del Likud, ma poi non ha esitato ad abbandonare il partito, ritenuto troppo estremista, per virare verso il centro e fondare il partito moderato Kadima, che poi, senza di lui, si è quasi spento lentamente. Ho incontrato Sharon non so quante volte. Ho scritto su di lui articoli durissimi, ma la sua forza era di non portare rancore, soprattutto verso i giornalisti. Posso dire che Ariel Sharon era quasi indispettito di fronte alla piaggeria di tanti zelanti sostenitori mediatici dell’ultima ora. Preferiva le domande dirette, anche le più sgradevoli.
Nell’ultima intervista che mi ha dato, promise solennemente che avrebbe compiuto «passi dolorosi». Mi guardò dritto negli occhi e disse: «Non mi crede? Vedrà di persona, e poi la riceverò per un’altra intervista». Pochi mesi dopo, decise l’uscita da Gaza. Ma quel che mi colpiva di Sharon era poco politico e molto personale: l’incontenibile piacere quando si parlava di buon cibo e di ristoranti. A Roma mi parlò del Bolognese, ma a Milano il suo palato aveva lasciato il cuore. Ricevendomi per un’intervista assieme al direttore Ferruccio de Bortoli, fece un «dotto preambolo» sulle qualità gastronomiche del ristorante Rigolo, che si trova in Largo Treves, a pochi passi da via Solferino, la sede del Corriere della sera. Ricordava dettagliatamente, a distanza di anni, alcuni piatti.
E’ strano che un generale abbia il culto dell’ironia. Sharon l’aveva. (...) Più di una volta, da primo ministro, mi aveva detto: «Non voglio che i libri di storia mi ricordino come uomo di guerra. Voglio essere ricordato come uomo di pace». Chissà cosa avrebbe fatto, Ariel Sharon, negli ultimi otto anni, tra la prima e la seconda morte. Non lo sapremo mai. Però possiamo dirgli: «Riposi in pace, signor primo ministro».

Nessun commento:

Posta un commento