In bocca al lupo a chi sta tentando di formare un governo, in queste ore. Siamo costretti a tifare per lui, perché il "rinculo" di un fallimento potrebbe costare troppo al Paese.
Però non possiamo tacere le tracce pericolose di una retorica che non vorremmo sentire, soprattutto in un ambito che si vorrebbe progressista. La distinzione fra un'Italia popolare e reale e le élites (vd. intervista di Nardella al Corriere), la contrapposizione forzata fra un popolo puro e generoso, e una "casta" corrotta, o almeno lenta, non è una buona base per le riforme.
Lo si è già scritto: la democrazia dovrebbe riuscire a superare questo tipo di dicotomia; perché da una parte limita e contrasta il naturale formarsi di aggregati di potere, dall'altra perché richiede ai "semplici cittadini" e ai "senza potere" di non "accontentarsi" di accettare come date le dinamiche di potere, ma di costruire - da soli o in comunione con altri individui - le condizioni perché ogni potere venga controllato, limitato, valutato, messo in tensione.
Questo esercizio - quasi quotidiano - è cosa ben lontana dal protestare innocenza e dalla contrapposizione fine a se stessa; è anzi in realtà un'assunzione di responsabilità; è anche un comprendere realisticamente la situazione data, le dinamiche oggettive che si pongono nella storia. Abitare i tempi con scienza e coscienza, mai dismettendo il senso critico.
In questo senso - pur comprendendo le ragioni di chi chiede una "primazia" della politica sull'economia, di chi contesta alcune scelte economiche del passato - è secondo me da guardare con sospetto una certa retorica che accompagna l'operazione che si sta costruendo attorno al governo in formazione, in particolare rispetto alla volontà di "cambiare verso" all'economia italiana, anche attraverso il simbolico "ritorno" di un politico al Ministero dell'Economia (cosa di per sé assolutamente legittima, naturalmente).
L'Italia ha bisogno di riforme, e forse questo nuovo governo ne farà di importanti; ma è anche importante costruire attorno alle riforme (anche per farle durare al di là di una fortunata contingenza politica) un tessuto di elaborazione e di approfondimento che è cosa molto più complessa della contrapposizione sterile - e alfine reazionaria - popolo vs casta.
Francesco Maria Mariotti
"(...) E allora faccio notare al direttore che Guerra ha una simpatia notoria per Matteo Renzi. E lui: “Renzi catalizza tutte le aspirazioni alla novità in un paese fermo. Ma questo non basta. E mi è dispiaciuto il modo in cui è stata chiusa la vicenda di Enrico Letta”. Sembra di capire che Renzi non ti sta simpatico, direttore. “Per ora siamo alla sceneggiata dannunziana. Ma in realtà mi auguro che abbia successo. Se Renzi funziona, funziona anche l’Italia. Ma tutto è più complicato di come appare”, dice, mentre sottolinea le pause e i sottintesi. “La scena politica si sta svolgendo come se l’Europa non ci fosse. E Renzi tra un po’ sarà chiamato invece a un bagno di realismo, dovrà confermare il rispetto del vincolo del 3 per cento nel rapporto deficit/pil. Adesso lo spread è basso, tutto è calmo. Ma non è escluso che l’Italia torni a essere un’osservata speciale. Lo slancio e l’impeto giovanile vanno bene. Ma ci vuole anche ponderazione, e il soccorso di uomini che sanno stare in Europa”. Ma l’Italia, un uomo che sapeva stare in Europa l’ha avuto: Monti. E non è andata un granché bene. “La storia gli restituirà molto di quello che la cronaca gli ha sottratto. Dobbiamo a lui se non siamo finiti come la Grecia”. L’Italia lo ha triturato, Monti. Il Foglio qualche tempo fa ha paragonato Monti a Gulliver, un gigante divorato dai Lillipuziani: da Casini e da Riccardi, dalla politica di sacrestia, dalla nera pozza democristiana, quella in cui s’affogano tutti i meriti. “Monti ha sottovalutato le insidie”, dice de Bortoli. E quando parla di Monti, che è stato a lungo editorialista del Corriere, il direttore ammette di parlare di un amico. “L’Italia è strana”, dice. “Ha allergia per tutte le cose serie. E non sopporta nemmeno i governi forti. Da Craxi fino a Berlusconi. Qui da noi c’è un interesse diffuso ad avere un governo debole, ricattabile, di scarsa durata”(...)
(...) Non siete stati ingenerosi con Enrico Letta?
«Letta ha rappresentato bene l’Italia all’estero. Ma non è riuscito a mettere in campo il coraggio indispensabile per rompere quel grumo fatto di burocrazia, corporazioni, poteri costituiti che da anni non permette all’Italia di tirar fuori le sue energie migliori».
Sta dicendo che l’establishment deve temere l’arrivo di Renzi?
«Esatto. E non mi stupisce che proprio l’establishment italiano in questi giorni si sia espresso più o meno implicitamente contro questo passaggio. Considerano Renzi come un barbaro».
Un barbaro?
«Il termine è forte, ma calzante: un barbaro che rompe i rituali e rappresenta un rischio per la conservazione dello statu quo. Come se l’Italia sonnolente, abituata a lucrare sulle posizioni di rendita economica, sociale e culturale, si trovasse improvvisamente e radicalmente messa in pericolo».
A chi si riferisce? Banche, sindacati, finanza, Rai?
«Mi riferisco a un insieme di mondi, anche all’apparenza in contrasto tra loro, che sono sopravvissuti in questo clima di lento declino, accontentandosi di mantenere posizioni dominanti, e oggi percepiscono lo stile, i contenuti, il messaggio di Renzi come qualcosa di estraneo. Matteo è un vero leader popolare. Un leader di popolo come da tanti anni non se ne vedono in Italia, e per questo capace di penetrare quella cortina di poteri costituiti, per comunicare direttamente con i cittadini. Renzi è visto come elemento destabilizzante; e dal loro punto di vista lo è. Proprio per questo rappresenta una grande opportunità per l’Italia per vivere un nuovo Rinascimento, se vogliamo usare un termine che appartiene alla storia di Firenze». (...)
Lei è stato il primo a dire che all’Economia ci vuole un politico. Perché?
«Perché l’era dei “tecnici a prescindere” è ormai alle nostre spalle, e ha dimostrato purtroppo di non aver corrisposto alle attese. L’Italia è uno strano Paese: i politici scaricano sui tecnici le proprie responsabilità. È sbagliato affidare la spending review a un tecnico, per quanto capace. Non esiste scelta più politica che decidere quali voci di spesa pubblica tagliare. E il problema non riguarda solo i ministri, ma i ministeri».
Si riferisce all’alta burocrazia?
«Sì. Noi dobbiamo riformare radicalmente la burocrazia dello Stato, a partire dai vertici. Troppe volte nei corridoi si sente dire: “I ministri passano, i tecnici restano”. Dobbiamo aggredire l’iper-regolamentazione e le concentrazioni di potere e di privilegi, stipendi compresi. Basta decreti milleproroghe, specchio di un’Italia che getta sempre la palla in tribuna. Spezziamo la spirale drammatica di una burocrazia che di fronte a un problema, invece di risolverlo, inventa l’ennesima norma».
Delrio potrebbe fare il ministro dell’Economia?
«Non ci troverei nulla di strano. Anzi, ritengo che i sindaci oggi siano la migliore espressione della politica italiana; non fosse altro perché conoscono meglio di tutti l’Italia reale, mentre la distanza tra le istituzioni centrali e la società reale continua a crescere».
Tra queste istituzioni include la Banca d’Italia?
«Per certi aspetti, sì. La questione ci obbliga a una riflessione più generale dell’Europa. Il problema della distanza tra politica e società civile è ancora più vistoso sullo scenario europeo. Per questo sono preoccupato per le prossime elezioni di maggio». (...)
Il punto però, spiega Macaluso, è che al di là delle trattative tra i partiti è molto difficile oggi trovare candidati di questo tipo, che soddisfino anche il requisito della discontinuità imposto da Renzi. "Da un lato c'è stato un impoverimento culturale nella classe politica, una progressiva incapacità a governare e dall'altro i politici sono stati vittima di una pulizia etnica. Sì etnica. Da un po' di tempo è obbligatorio scegliere i tecnici per quella delegittimazione che ha travolto la politica". Ma perché Renzi ha collezionato tutti questi no?: "Credo che le persone da lui contattate abbiano capito che l'intenzione era di usarle, un po' come figurine, e non abbiamo voluto farsi strumentalizzare solo per riflettere sulla scena un'immagine di novità, discontinuità e tutti gli altri concetti che vanno di moda in questa fase"(...)
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