Fabrizio Saccomanni ha fatto un sogno. Si è visto, in una piovosa e grigia mattinata londinese, uscire dal n.11 di Downing Street, proprio accanto alla residenza del primo ministro, e mostrare ai fotografi, riuniti per l’annuale occasione, una valigetta consunta che un tempo era rossa, sempre la stessa dai tempi di Gladstone per lo stesso rito. Un sorriso alla stampa, la valigetta alzata per i flash, poi via ai Comuni a depositare davanti ai rappresentanti del popolo il bilancio della Corona. Il bilancio è sigillato, solo lui ne conosce le cifre prima di sottoporlo al voto: prendere o lasciare.
(...) Quanti ministri del Tesoro (chiamati oggi, più pomposamente, dell’economia) hanno sognato la stessa britannica scena e si sono risvegliati nell’incubo quotidiano di Montecitorio e palazzo Madama. Westminster era quel che aveva in mente Beniamino Andreatta, il più inglese degli economisti democristiani, nel 1978 quando istituì la legge finanziaria che doveva essere composta idealmente del solo articolo 1, quello che fissa il saldo netto da finanziare (cioè la differenza tra entrate e uscite) e il limite del ricorso al mercato, cioè l’indebitamento annuo. Alla valigetta rossa del Cancelliere dello scacchiere faceva riferimento costante Luigi Spaventa, l’economista di sinistra che, da tutt’altra sponda, in quel clima di unità nazionale seguito al delitto Moro aveva contribuito a creare uno strumento più razionale per rendere conto del bilancio pubblico.
Il debito non era ancora così alto, arrivava sì e no al 70% del prodotto lordo, ma sia Andreatta sia Spaventa capivano che si sarebbe impennato ben presto per pagare a pie’ di lista le riforme sociali di quegli anni: le pensioni, la sanità per tutti, la cassa integrazione, la legge Prodi sui salvataggi aziendali, le regioni, insomma l’impalcatura dello stato assistenziale italiano così come lo conosciamo ancor oggi. Andreatta e Spaventa da allora in poi non hanno mai cessato di alzare il dito contro l’illusione del pasto gratis, cioè di poter sostenere la continua corsa della spesa pubblica senza pagare un prezzo, in termini non solo di entrate (cioè tasse) rimaste sempre, sistematicamente molto inferiori alle uscite, ma anche di efficienza e produttività. Entrambi erano ancora in prima fila, uno al centro e l’altro a sinistra, quando nel 1992 il debito pubblico arrivò al 120%, crollò la lira e con essa il sistema politico che aveva consentito a una intera generazione di spostare il conto sulla generazione futura. Hanno anche cercato un rimedio, si pensi alle privatizzazioni. Ma le cure peggiori del male sono state senza dubbio le manovre correttive (...)
Il modello britannico non è la panacea, la crisi fiscale dello stato è profonda ovunque, ma resta l’unico modo finora conosciuto per dare razionalità alla politica di bilancio, stabilire le responsabilità del governo e del parlamento nell’autonomia dei loro poteri. Quando ci sarà un ministro che esce da via XX Settembre con la sua ventiquattrore piena di cifre che nessuno conosce per recarsi alla Camera dei deputati unica istituzione depositaria del potere legislativo, ma senza facoltà di aumentare le spese, ebbene allora l’Italia sarà un paese più moderno e affidabile.
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