mercoledì 11 dicembre 2013

Reagire Con Forza All'Aggressione Reazionaria

Mantenere la calma in queste ore di confusione è doveroso, ma non deve significare sottovalutare cosa sta succedendo. C'è infatti un limite scritto nella sabbia, quindi difficilmente individuabile a priori, fra la tolleranza paziente del forte e la colpevole viltà del debole. 

Io temo che questo limite stiamo rischiando di passare, nel continuare a definire "comprensibili" le ragioni della protesta cosiddetta "dei forconi" e nel non reagire a metodi di protesta sempre più inaccettabili (da notare comunque che contro questi metodi violenti i cittadini comiciano a mobilitarsi, per esempio a Torino).
 
Questo paese, e in particolare le forze progressiste - a furia di gridare "al fascista" per motivi inutili o risibili - sembra aver perso la voce di fronte a quella che appare sempre di più un'aggressione reazionaria alle istituzioni democratiche.
 
Non c'è ragione che tenga, quando si minaccia chi non partecipa allo sciopero, come sta accadendo in varie parti del Paese. Il disordine che sembra segnare l'organizzazione di queste manifestazioni - e che rende più difficile la gestione da parte delle forze dell'ordine - dovrebbe anche far riflettere coloro che attaccano a pie' sospinto i sindacati confederali, che garantiscono con la loro presenza e azione la legalità degli scioperi.
 
E a chi si fa comprensibilmente toccare dai nodi reali - che ci sono, naturalmente, e segnano la vita di molte persone che manifestano - va detto chiaramente che la povertà non è mai stata - nel migliore pensiero sociale di ogni parte politica - giustificazione per ribellismi che non fanno che nuocere a qualsiasi vera ipotesi di riforma di questo Paese.
 
Non c'è molto da dire: lo Stato, il Governo, e anche questo Parlamento sono pienamente legittimati a reagire a un'aggressione grave e senza giustificazioni.  Mantenere la calma si deve e si può: ma se la pazienza rischia di sembrare viltà, non va atteso oltre.

Si sgomberino in tutti i modi possibili - con l'uso legittimo della forza che lo Stato può e deve utilizzare - le strade e le piazze di questo Paese e si ponga fine a queste inutili, dannose e pericolose forme di protesta.
 
Francesco Maria Mariotti
 
***​
 
Vita difficile per i commercianti torinesi che, nonostante le proteste in corso, in questi giorni hanno cercato di tenere aperti i negozi. Minacce, intimidazioni e insulti da parte dei manifestanti, che spesso si sono fatti prendere la mano. Come testimonia il video pubblicato ieri da Repubblica: l'episodio risale al primo pomeriggio di lunedì, nella centralissima via Garibaldi, a poca distanza da piazza Castello. Le immagini parlano da sè, ma l'HuffPost ha raggiunto Alessandro, uno dei due store manager (il ragazzo rasato sulla destra dello schermo) del negozio di abbigliamento.

Come si sono svolti i fatti?
"Quando il corteo si è sciolto, un gruppetto di persone assortite è entrato nel nostro negozio urlando e intimando a tutti di uscire. Ho cercato di calmarli, dicendo che avrei chiuso e chiedendo che mi dessero il tempo di far uscire i clienti. Ho tirato giù mezza serranda per far capire che li avrei accontentati, anche se malvolentieri. Abbiamo messo in sicurezza il personale e fatto uscire la clientela. Il mio collega Luca (è il ragazzo con i pantaloni gialli) è rimasto fuori. Allora ho fatto il giro dal portone del cortile per non lasciarlo da solo.

Si è trattato solo di qualche parola (non si sentono neanche tutte). Il problema è che loro sostenevano dei diritti sacrosanti, le loro motivazioni non le discuto assolutamente, però per difenderle hanno calpestato quello che, secondo me, è un diritto più importante: la libertà di scelta. Il nostro è solo uno dei tanti episodi. Abbiamo negozi anche nei centri commerciali e lì sono avvenuti fatti ancora più gravi di quello che è successo a noi. In alcuni casi hanno addirittura malmenato e minacciato in malo modo le commesse".

Perso il lavoro, una donna di ventotto anni si riorganizza l’esistenza e apre un negozio tutto suo, tra sacrifici e paure di non farcela. Poi arriva la settimana dei forconi e le cedo la parola: «Sono d’accordo con il motivo della protesta, ma non con il modo. Io non posso e non voglio chiudere. E non voglio che qualcuno mi obblighi a pensarla diversamente. Che io sia nel giusto o nel torto, potrò avere il mio pensiero? Oggi sono stata accerchiata da una ventina di uomini davanti al mio negozio: mi hanno spintonata e fatta cadere, mi hanno urlato che dovevo morire: “Ammazzate quella coniglia!” Quando mi sono rialzata e mi hanno detto “chiudi o ti spacchiamo tutto”, ho capito che la mia libertà di scelta era svanita. Le gambe mi tremavano e come una mamma con il suo bambino ho fatto la scelta più sicura. Ho chiuso le serrande. E chi veramente dovrebbe essere il bersaglio della protesta sarà a bere un cappuccino con i soldi pubblici».
Chissà se esiste, per l’umanità evoluta (?) del ventunesimo secolo, la possibilità di esprimere l’esasperazione senza la prevaricazione e la rabbia senza la violenza vigliacca che si accanisce contro i più deboli. L’unica alternativa plausibile l’hanno offerta domenica scorsa i tre milioni di votanti delle primarie democratiche, firmando l’ennesima cambiale in bianco alla classe dirigente. Ma è stata l’ultima. Se i politici non la onoreranno in fretta, prendendo consapevolezza dell’emergenza e rinunciando ai loro riti lenti e bizantini, come sempre nella storia l’ignavia della democrazia avrà prodotto i forconi su cui si isseranno le prossime dittature.

Si apre il terzo giorno della protesta dei Forconi e il prefetto di Torino ha ottenuto rinforzi per contrastare manifestazioni - parole sue - «uniche nel loro genere perché basate su azioni sporadiche e presidii improvvisi in diversi punti». Una città storicamente abituata a convivere con forme radicali di conflitto ieri è parsa alla mercé di manifestanti che potevano interrompere a loro piacimento qualsiasi servizio pubblico e intimidire i commercianti. Il tutto in un vuoto pneumatico, nel quale assenti la politica e le forze sociali, troppo lento nell’agire il ministro dell’Interno, il peso del confronto - persino psicologico - è stato caricato sui poliziotti. Nessuno sottovaluta ampiezza e profondità del malessere che attraversa la società e che mette in difficoltà le frange più deboli del lavoro autonomo, come i camionisti con un solo Tir o gli ambulanti, ma si ha l’impressione che le loro rivendicazioni servano come foglia di fico ai veri capi della rivolta. Sul campo è nato con il logo dei Forconi un attore sociale e politico trasversale, il cui retroterra non è chiaro e che ha aggregato di tutto, persino gli ultrà del calcio.
Un mondo politico costantemente alla ricerca di un copione da recitare non aspettava altro che strumentalizzare la protesta


Chi sono i “forconi”
Il “movimento dei forconi” è molto eterogeneo e difficile da definire con precisione. La componente principale, che ha dato origine all’iniziativa un paio di anni fa nel sud Italia, è costituita dagli autotrasportatori, cui nel tempo si sono aggiunti gruppi più o meno organizzati di agricoltori, operai, venditori dei mercati e perfino ultras delle tifoserie di calcio. La maggior parte fa riferimento a partiti e movimenti politici di estrema destra, a partire da Forza Nuova, che negli ultimi giorni ha dato il proprio sostegno alle iniziative di protesta in giro per l’Italia.

Nel caso di Torino, come racconta oggi sul Corriere della Sera Marco Imarisio, alla protesta si sono aggiunti studenti delle scuole superiori e delle università, alcune organizzazioni sindacali e militanti della sinistra antagonista. I termini e le modalità della protesta in questo caso sono ben distinti, anche se c’è il riconoscimento della capacità dei “forconi” di avere attirato l’attenzione sulla loro protesta.

Che cosa chiedono
La composizione eterogenea del “movimento dei forconi” si riflette anche sulla natura delle richieste rivolte alle istituzioni. I motivi della protesta e ciò che viene chiesto alla politica e alle amministrazioni non è del tutto chiaro. C’è di sicuro un generico “basta” applicato praticamente a tutto: ai politici viene chiesto indistintamente di lasciare i loro incarichi, al governo di dimettersi, alle amministrazioni locali di non pagare più consiglieri e assessori, a Equitalia di non effettuare più riscossioni e allo Stato in generale di non tassare più la popolazione. Manca un interlocutore unico e per questo motivo le istituzioni faticano a organizzare la loro risposta alle proteste, che hanno causato grandi disagi negli ultimi giorni.


Le parole scandite a questo giornale dal segretario del Siulp Felice Romano - "Abbiamo giurato fedeltà alla Repubblica e ai suoi cittadini, non a coloro che rappresentano temporaneamente le istituzioni. Che forse sono troppo affaccendati nelle loro questioni personali per comprendere cosa sta davvero succedendo" - sono inquietantipericolose e mi auguro che vengano quanto prima smentite innanzitutto perché solo nelle vere democrazie i politici si trovano temporaneamente ma legittimamente a rappresentare le istituzioni, altrimenti ci troveremmo in dei regimi.
E' indubbio che le forze dell'ordine di questo Paese stiano pagando, e non da un giorno, un prezzo altissimo alla crisi: uomini e donne in divisa che sono quotidianamente impegnati in contesti sempre più difficili, dall'ordine pubblico alle indagini contro la criminalità organizzata, hanno subito tagli lineari per miliardi di euro e un blocco degli stipendi che li sta impoverendo e mettendo, psicologicamente, a durissima prova.(...)

Nessun commento:

Posta un commento