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lunedì 7 dicembre 2020

L'illusione illuminista

Forse è una riflessione già accennata in passato, mi torna spesso: credo che uno dei problemi più seri dell'approccio filosofico - politico che genericamente possiamo definire "progressista" sia scommettere eccessivamente sull'"educazione consapevole" come motore trainante del miglioramento delle persone. 

Da questo nodo due problemi, forse due facce del medesimo: 

- stupirsi quasi ingenuamente delle "ricadute" della storia nelle "tenebre" (presunte o reali esse siano), non facendo i conti con il fatto che siamo animali razionali, sociali, forse anche spirituali, ma comunque con un residuo ineliminabile di "animalità", se non anche di "bestialità" (che va per lo più limitata e governata e non certo esaltata, ma è comunque sempre presente)

- illudersi che si possano governare gli istinti degli uomini e delle donne "educando" (governando? controllando? "censurando"?) parole, costrutti razionali espliciti, contenuti culturali e via così dicendo.

Ovviamente non è che si debba cadere in un estremo opposto di sfiducia nell'azione educativa e culturale, ma soprattutto di questi tempi si nota una sorta di rinnovato ardore in senso "politico-didattico" (per esempio verso problematiche  ambientaliste, o di genere, o di memoria) che fa temere nuove illusioni, e forse nuovi pesanti errori, da cui trarrebbero paradossale beneficio le forze più reazionarie, autoproclamandosi - come spesso capita - custodi di "autenticità" rimossa. 

venerdì 13 dicembre 2013

Nessuna Tolleranza

(....) Per quello che riguarda l’ordine pubblico, noi chiediamo al governo di usare tolleranza zero, verso chi si è reso o si renderà responsabile degli atti violenti di cui abbiamo parlato, di identificare e denunciare coloro i quali hanno minacciato i cittadini nei giorni scorsi e ancora in questi, di togliere, senza più porre tempo in mezzo, i blocchi stradali che sono ancora operanti. Di identificare e denunciare chi si sia reso responsabile dell’organizzazione materiale e logistica di una così vasta rete di eventi contemporanei e di trasferimenti di persone. Chiediamo anche un contributo di conoscenza. Noi vogliamo conoscere i nomi e le organizzazioni che sono state dietro questi inaccettabili eventi. Vogliamo sapere chi c’era oltre ai legittimi manifestanti, quali gruppi, sigle, tendenze politiche. Certo la politica deve dare risposte, puntuali, rapide, significative; ma nessun lassismo, nessun attendismo, rispetto ai violenti, cambierà di un millimetro la drammatica crisi sociale che attraversiamo. La soluzione di quei problemi si trova qua dentro, in Parlamento, o non si trova; conosciamo già le scorciatoie violente della storia, e non siamo disponibili a ripeterne gli errori. Nessun ritardo per le risposte politiche dunque, ma nessuna tolleranza per la violenza, i ricatti e le squadracce che hanno messo a soqquadro per il paese.


Da tre giorni le principali città italiane, ma soprattutto Torino, sono ostaggio di una confusa rivolta. Confusa, perché raccoglie un effettivo forte disagio sociale, ma pure un trasversale ribellismo dai molti e anche ambigui colori. Confusa, perché gli obbiettivi o sono così vaghi o sono così irrealistici da apparire puri pretesti.
Pretesti per sfogare una protesta destinata a non avere risultati concreti. Confusa, perché invece di colpire i presunti «nemici del popolo», la classe politica, nazionale e locale, colpisce il popolo. Quello dei pendolari, costretti a raddoppiare la fatica di una già durissima giornata; quello dei commercianti, obbligati dalle minacce dei rivoltosi a rinunciare ai pur magri incassi prenatalizi; quello della gente comune, costretta a complicati e, in alcuni casi, perigliosi pellegrinaggi tra serrande sbarrate. Una rivolta, invece, chiarissima nel dimostrare una realtà ormai emersa in molti casi, ma mai in maniera cosi evidente: l’assenza dello Stato.

mercoledì 11 dicembre 2013

Reagire Con Forza All'Aggressione Reazionaria

Mantenere la calma in queste ore di confusione è doveroso, ma non deve significare sottovalutare cosa sta succedendo. C'è infatti un limite scritto nella sabbia, quindi difficilmente individuabile a priori, fra la tolleranza paziente del forte e la colpevole viltà del debole. 

Io temo che questo limite stiamo rischiando di passare, nel continuare a definire "comprensibili" le ragioni della protesta cosiddetta "dei forconi" e nel non reagire a metodi di protesta sempre più inaccettabili (da notare comunque che contro questi metodi violenti i cittadini comiciano a mobilitarsi, per esempio a Torino).
 
Questo paese, e in particolare le forze progressiste - a furia di gridare "al fascista" per motivi inutili o risibili - sembra aver perso la voce di fronte a quella che appare sempre di più un'aggressione reazionaria alle istituzioni democratiche.
 
Non c'è ragione che tenga, quando si minaccia chi non partecipa allo sciopero, come sta accadendo in varie parti del Paese. Il disordine che sembra segnare l'organizzazione di queste manifestazioni - e che rende più difficile la gestione da parte delle forze dell'ordine - dovrebbe anche far riflettere coloro che attaccano a pie' sospinto i sindacati confederali, che garantiscono con la loro presenza e azione la legalità degli scioperi.
 
E a chi si fa comprensibilmente toccare dai nodi reali - che ci sono, naturalmente, e segnano la vita di molte persone che manifestano - va detto chiaramente che la povertà non è mai stata - nel migliore pensiero sociale di ogni parte politica - giustificazione per ribellismi che non fanno che nuocere a qualsiasi vera ipotesi di riforma di questo Paese.
 
Non c'è molto da dire: lo Stato, il Governo, e anche questo Parlamento sono pienamente legittimati a reagire a un'aggressione grave e senza giustificazioni.  Mantenere la calma si deve e si può: ma se la pazienza rischia di sembrare viltà, non va atteso oltre.

Si sgomberino in tutti i modi possibili - con l'uso legittimo della forza che lo Stato può e deve utilizzare - le strade e le piazze di questo Paese e si ponga fine a queste inutili, dannose e pericolose forme di protesta.
 
Francesco Maria Mariotti
 
***​
 
Vita difficile per i commercianti torinesi che, nonostante le proteste in corso, in questi giorni hanno cercato di tenere aperti i negozi. Minacce, intimidazioni e insulti da parte dei manifestanti, che spesso si sono fatti prendere la mano. Come testimonia il video pubblicato ieri da Repubblica: l'episodio risale al primo pomeriggio di lunedì, nella centralissima via Garibaldi, a poca distanza da piazza Castello. Le immagini parlano da sè, ma l'HuffPost ha raggiunto Alessandro, uno dei due store manager (il ragazzo rasato sulla destra dello schermo) del negozio di abbigliamento.

Come si sono svolti i fatti?
"Quando il corteo si è sciolto, un gruppetto di persone assortite è entrato nel nostro negozio urlando e intimando a tutti di uscire. Ho cercato di calmarli, dicendo che avrei chiuso e chiedendo che mi dessero il tempo di far uscire i clienti. Ho tirato giù mezza serranda per far capire che li avrei accontentati, anche se malvolentieri. Abbiamo messo in sicurezza il personale e fatto uscire la clientela. Il mio collega Luca (è il ragazzo con i pantaloni gialli) è rimasto fuori. Allora ho fatto il giro dal portone del cortile per non lasciarlo da solo.

Si è trattato solo di qualche parola (non si sentono neanche tutte). Il problema è che loro sostenevano dei diritti sacrosanti, le loro motivazioni non le discuto assolutamente, però per difenderle hanno calpestato quello che, secondo me, è un diritto più importante: la libertà di scelta. Il nostro è solo uno dei tanti episodi. Abbiamo negozi anche nei centri commerciali e lì sono avvenuti fatti ancora più gravi di quello che è successo a noi. In alcuni casi hanno addirittura malmenato e minacciato in malo modo le commesse".

Perso il lavoro, una donna di ventotto anni si riorganizza l’esistenza e apre un negozio tutto suo, tra sacrifici e paure di non farcela. Poi arriva la settimana dei forconi e le cedo la parola: «Sono d’accordo con il motivo della protesta, ma non con il modo. Io non posso e non voglio chiudere. E non voglio che qualcuno mi obblighi a pensarla diversamente. Che io sia nel giusto o nel torto, potrò avere il mio pensiero? Oggi sono stata accerchiata da una ventina di uomini davanti al mio negozio: mi hanno spintonata e fatta cadere, mi hanno urlato che dovevo morire: “Ammazzate quella coniglia!” Quando mi sono rialzata e mi hanno detto “chiudi o ti spacchiamo tutto”, ho capito che la mia libertà di scelta era svanita. Le gambe mi tremavano e come una mamma con il suo bambino ho fatto la scelta più sicura. Ho chiuso le serrande. E chi veramente dovrebbe essere il bersaglio della protesta sarà a bere un cappuccino con i soldi pubblici».
Chissà se esiste, per l’umanità evoluta (?) del ventunesimo secolo, la possibilità di esprimere l’esasperazione senza la prevaricazione e la rabbia senza la violenza vigliacca che si accanisce contro i più deboli. L’unica alternativa plausibile l’hanno offerta domenica scorsa i tre milioni di votanti delle primarie democratiche, firmando l’ennesima cambiale in bianco alla classe dirigente. Ma è stata l’ultima. Se i politici non la onoreranno in fretta, prendendo consapevolezza dell’emergenza e rinunciando ai loro riti lenti e bizantini, come sempre nella storia l’ignavia della democrazia avrà prodotto i forconi su cui si isseranno le prossime dittature.

Si apre il terzo giorno della protesta dei Forconi e il prefetto di Torino ha ottenuto rinforzi per contrastare manifestazioni - parole sue - «uniche nel loro genere perché basate su azioni sporadiche e presidii improvvisi in diversi punti». Una città storicamente abituata a convivere con forme radicali di conflitto ieri è parsa alla mercé di manifestanti che potevano interrompere a loro piacimento qualsiasi servizio pubblico e intimidire i commercianti. Il tutto in un vuoto pneumatico, nel quale assenti la politica e le forze sociali, troppo lento nell’agire il ministro dell’Interno, il peso del confronto - persino psicologico - è stato caricato sui poliziotti. Nessuno sottovaluta ampiezza e profondità del malessere che attraversa la società e che mette in difficoltà le frange più deboli del lavoro autonomo, come i camionisti con un solo Tir o gli ambulanti, ma si ha l’impressione che le loro rivendicazioni servano come foglia di fico ai veri capi della rivolta. Sul campo è nato con il logo dei Forconi un attore sociale e politico trasversale, il cui retroterra non è chiaro e che ha aggregato di tutto, persino gli ultrà del calcio.
Un mondo politico costantemente alla ricerca di un copione da recitare non aspettava altro che strumentalizzare la protesta


Chi sono i “forconi”
Il “movimento dei forconi” è molto eterogeneo e difficile da definire con precisione. La componente principale, che ha dato origine all’iniziativa un paio di anni fa nel sud Italia, è costituita dagli autotrasportatori, cui nel tempo si sono aggiunti gruppi più o meno organizzati di agricoltori, operai, venditori dei mercati e perfino ultras delle tifoserie di calcio. La maggior parte fa riferimento a partiti e movimenti politici di estrema destra, a partire da Forza Nuova, che negli ultimi giorni ha dato il proprio sostegno alle iniziative di protesta in giro per l’Italia.

Nel caso di Torino, come racconta oggi sul Corriere della Sera Marco Imarisio, alla protesta si sono aggiunti studenti delle scuole superiori e delle università, alcune organizzazioni sindacali e militanti della sinistra antagonista. I termini e le modalità della protesta in questo caso sono ben distinti, anche se c’è il riconoscimento della capacità dei “forconi” di avere attirato l’attenzione sulla loro protesta.

Che cosa chiedono
La composizione eterogenea del “movimento dei forconi” si riflette anche sulla natura delle richieste rivolte alle istituzioni. I motivi della protesta e ciò che viene chiesto alla politica e alle amministrazioni non è del tutto chiaro. C’è di sicuro un generico “basta” applicato praticamente a tutto: ai politici viene chiesto indistintamente di lasciare i loro incarichi, al governo di dimettersi, alle amministrazioni locali di non pagare più consiglieri e assessori, a Equitalia di non effettuare più riscossioni e allo Stato in generale di non tassare più la popolazione. Manca un interlocutore unico e per questo motivo le istituzioni faticano a organizzare la loro risposta alle proteste, che hanno causato grandi disagi negli ultimi giorni.


Le parole scandite a questo giornale dal segretario del Siulp Felice Romano - "Abbiamo giurato fedeltà alla Repubblica e ai suoi cittadini, non a coloro che rappresentano temporaneamente le istituzioni. Che forse sono troppo affaccendati nelle loro questioni personali per comprendere cosa sta davvero succedendo" - sono inquietantipericolose e mi auguro che vengano quanto prima smentite innanzitutto perché solo nelle vere democrazie i politici si trovano temporaneamente ma legittimamente a rappresentare le istituzioni, altrimenti ci troveremmo in dei regimi.
E' indubbio che le forze dell'ordine di questo Paese stiano pagando, e non da un giorno, un prezzo altissimo alla crisi: uomini e donne in divisa che sono quotidianamente impegnati in contesti sempre più difficili, dall'ordine pubblico alle indagini contro la criminalità organizzata, hanno subito tagli lineari per miliardi di euro e un blocco degli stipendi che li sta impoverendo e mettendo, psicologicamente, a durissima prova.(...)

mercoledì 31 luglio 2013

L'importanza dei fatti, delle misurazioni indipendenti, della scienza

(...) I fatti sono un’invenzione recente, non c’erano nemmeno le parole per indicarli. Factum: quello che è stato fatto. Nel 400 d.C. San Girolamo tradusse il Vangelo di Giovanni, 1:14: Verbum caro factum est, E il verbo si fece carne. Factum: da fare, quello che è stato fatto. Non sono un latinista, anzi giusto per rispettare i fatti: per quattro anni sono stato rimandato al liceo. Prendo questa informazione da La stanza intelligente di Weinberger (Codice Edizioni). In alcuni periodi fatto significava fatto disdicevole. Poi è arrivato Bentham e l’utilitarismo. Nel 1819 la Casa dei Comuni britannica discusse un nuovo disegno di legge sugli spazzacamini. I progressisti sostenevano che non fosse giusto far lavorare i ragazzi con meno di 14 anni, mentre i conservatori insistevano che era meglio che i bambini lavorassero «anziché vederli alla prese con imbrogli e furti oggi così comuni tra i maschi di tenera età», come diceva Thomas Denman. Mr. Ommaney era convinto che per i giovani spazzacamini (di otto anni) non ci fosse nessun problema: lui li aveva visti, erano vivaci, allegri e contenti. E Denman rilanciava: a quell’età hanno pure la costituzione fisica perfetta per pulire i camini. I progressisti combatterono le impressioni di Ommaney esibendo delle prove fattuali, e cioè le statistiche mediche che affermavano altro: i giovani spazzacamini esibivano tutti i sintomi della vecchiaia precoce. Erano le statistiche a dirlo: statistiche, dalla radice stat,Stato: un insieme di informazioni di Stato, indipendenti da opinioni e conclusioni personali.
Adesso facciamo presto a dire i fatti e a prendere in giro le statistiche (anzi chi è che non cita Trilussa e il pollo) e l’utilitarismo, ma fino all’Ottocento avevano la meglio i ricchi che, per lo più, esercitavano il potere basandosi sulle proprie impressioni e sulla autorità che il proprio status gli attribuiva. Poi arrivò Bentham. Secondo Bentham il piacere e il dolore influenzano in uguale misura la nostra vita, quindi il criterio per giudicare un’azione è stabilire se produca «la massima felicità per il maggior numero di persone». Il principio di Bentham applicato al caso dei giovani spazzacamini significava, per esempio, che la felicità del duo Denman/Ommaney (usare piccoli di otto anni per pulire il proprio camino) non contava più della felicità dei ragazzini (poveri). Con questa nuova filosofia lo Stato non poteva più basare le sue azioni sulle impressioni di quelli come Ommaney (ho visto anche gli spazzacamini felici), ma doveva impegnarsi ad accrescere la felicità generale. Per prima cosa doveva capire com’era davvero la vita dei cittadini, c’era bisogno di fatti, e di metodologie per accertarli. Fu il tempo dei libri azzurri, i rapporti sulla povertà, la criminalità, l’istruzione. Libri pieni di aneddoti, storie, interviste e tabelle statistiche: fatti su fatti, e anche se i metodi statistici non erano così raffinati, alla fine hanno vinto i progressisti.(...)

mercoledì 12 dicembre 2012

Albert Otto Hirschman

"(...) Il secondo libro è “Rhetoric of Reaction: Perversity, Futility, Jeopardy”. Uscito nel 1991, rimane una testimonianza critica della narrazione conservatrice degli anni ’80 ben più interessante e acuta di quelle che oggi ormai affollano il dibattito pubblico. È un libro che unisce il pensiero politico (con le riflessioni sulla reazione in una prospettiva di “lunga durata”) e la stessa comunicazione politica, in modo davvero efficace. Il libro nasce dall’approfondimento di un intervento di Dahrendorf al convegno organizzato dalla Ford Foundation nel 1985 su “La crisi del welfare state”. Le tre retoriche, per Hirschman, sono la reazione conservatrice dell’allargamento della dimensione civile, politica e sociale della cittadinanza (le retoriche rivoluzionarie, progressiste e riformiste). Nella tesi della perversità, ogni azione volta a migliorare l’ordine sociale porta a peggiorare la condizione a cui si vuole rimediare. Secondo la futilità, il risultato del cambiamento sarà irrilevante, quindi non vale la pena di proporlo. Secondo l’ultima tesi, i cambiamenti mettono a repentaglio in modo decisivo alcune fondamentali conquiste precedenti. Hirschman interpreta il pensiero politico ottocentesco e del suo tempo (riferendosi, tra gli altri, a Hayek e a un autore ancora vivente e attivo come Charles Murray) con queste categorie. Come scrisse lo stesso Hirschman, la parte più interessante del libro è forse quella in cui mette in discussione i totem della sua parte politica, le “retoriche del progresso”, tra cui la “teoria del pericolo imminente” e la credenza che “la Storia è dalla nostra parte” (...)". 

 
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Dal Sole24Ore