L'Europa come l'abbiamo conosciuta fino ad oggi sembra condannarsi a una morte certa, incastrata fra movimenti di protesta spontanei, crisi finanziaria, caso Strauss -Khan, l'assurda guerra libica senza sbocchi.
Enzo Bettiza lo denunciava magistralmente qualche giorno fa sulla Stampa, chiedendosi se non fosse l'ora di far rinascere questa comunità, anteponendo la politica all'economia.
Certo, di fronte al fatto che i mercati finanziari sembrano aver già condannato la Grecia - e questo vuol dire che a brevissimo potrebbero ripartire gli attacchi speculativi contro l'euro - l'Unione Europea dovrebbe rispondere compatta.
E non possiamo semplicemente dire "Sì, ok, facciamo i nostri compiti per bene, scusateci se abbiamo sbagliato". Perché - per quanto corretti siano i giudizi finanziari sui bilanci dei paesi (e sarebbe da discutere la capacità e la neutralità di alcuni valutatori), la partita che si gioca basandosi su questi giudizi è comunque politica, coinvolgendo le vite di milioni persone, e ponendo a rischio la stabilità democratica dei paesi coinvolti.
"(...) il politico con responsabilità di governo è come un medico di fronte a una grave emorragia: deve prima di tutto cercare di bloccarla (...)" Gli economisti e i politici, come ricordava Mario Deaglio nel gennaio del 2009, "devono" ragionare con ritmi diversi. Ne sono consapevoli gli stessi banchieri centrali, che non sono affatto dei "freddi tecnocrati": ricordando in dicembre Tommaso Padoa Schioppa, Bini Smaghi ribadiva che la moneta era un passo verso la costruzione di una creatura politica.
Senza la politica, il banchiere centrale può fare molto ma non tutto. Può stimolare i governi a prendere decisioni, ma non sostituirsi ad essi. Mario Draghi, futuro presidente della BCE, ne è pienamente consapevole.
Questa consapevolezza sembra essere - in maniera paradossale - anche della destra populista, che si sta affermando da più parti nel continente, quasi creando un'"internazionale" dell'euroscetticismo, e che di fatto rappresenta - comunque la si giudichi - un tentativo di riconnettere cittadini e comunità.
Una politica che rientri pesantemente in gioco nell'agone europeo rischia però di dimenticare i limiti che la tradizione liberale le impone: l'inevitabile deriva protezionista che si sta preparando, le ripercussioni immigratorie della folle scelta bellica in Libia, e il rischio di crac europeo, possono indurre in tristi tentazioni i governanti europei.
D'altro canto, quasi come un'isola in mezzo al caos, il Belgio ci mostra che anche senza governo un paese riesce a costruire un percorso di crescita, e questo sembra un segnale di speranza a suo modo, quasi un dirci che "il terribile Faraone è poi così tanto necessario!"
Le speranze di un continente che ha ancora molto da dire al mondo nuovo che viene si giocano in questo difficile e stretto passaggio fra "apparente inutilità" della politica e sua necessità a un livello continentale che non riusciamo ancora a "tenere in mano".
Come già altre volte si è detto, è la consapevolezza di una identità che sembra mancare al nostro continente: essa non è però un dato scontato né mitologico, ma si costruisce quotidianamente; e bisogna anche desiderarla.
Francesco Maria
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