Poche righe per presentare Marta Dassù (laStampa del 5 luglio) e un articolo de Linkiesta per riflettere sulla sempre più assurda - e sempre più rimossa - guerra in Libia. Guerra per che cosa? Per quale scopo? Fin dall'inizio della sciagurata missione questa domanda è rimasta inevasa.
Si è già scritto fin dalle prime ore dell'intervento: dire che si combatteva "per i civili" era (ed è) pura retorica, in mancanza di in una strategia, di un orizzonte politico più ampio, e se non si accettava l'ipotesi - mai presa in considerazione, in realtà - di fare una guerra sul terreno.
La Dassù scrive:"(...) I Paesi che hanno deciso di intervenire, giusto o sbagliato che fosse, hanno ormai tutto l’interesse a non dare l’impressione di cedere (...)". Può darsi che in questo senso abbia ragione Rasmussen, che dice essere vicino il "game over" definitivo, ma in realtà, a mio modestissimo avviso, ormai è evidente a tutti (anche a Gheddafi, ovviamente) che i paesi occidentali vogliono chiudere la partita al più presto (anche per motivi economici, come si è già detto da queste parti, e come dimostra la riunione odierna del nostro Consiglio supremo di difesa, al di là delle dichiarazioni ufficiali), ed è inutile fare i gendarmi invincibili quando è praticamente impossibile chiudere la partita a proprio favore.
Inutile fingere, dunque: se possiamo fare qualcosa, lo dobbiamo fare subito; e l'Italia in testa - con la collaborazione del Vaticano, magari - può. E dunque deve.
Francesco Maria Mariotti
Sono passati più di 100 giorni dall’inizio della strana guerra di Libia: che ci stiamo dimenticando o vogliamo rimuovere. Intanto, il colonnello Gheddafi minaccia ancora da Tripoli di colpire l’Europa «le vostre case, i vostri uffici e le vostre famiglie» se i raid della Nato non cesseranno. Dichiarazioni del genere aiutano se non altro a chiarire il contesto: il Rais, colpito da un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale, abbandonato da parte dei suoi e indebolito dalle sanzioni economiche, è alla ricerca di una soluzione politica. Minaccia perché è debole non perché sia forte. Minaccia per trattare.
Questo ragionamento sui rapporti di forza (o sulle debolezze rispettive, sarebbe forse meglio dire) porta a una conclusione rilevante, anche per la politica italiana sulla Libia. I Paesi che hanno deciso di intervenire, giusto o sbagliato che fosse, hanno ormai tutto l’interesse a non dare l’impressione di cedere, se vogliono aumentare le possibilità di una trattativa politica che ponga fine alla guerra. Dopo di che, lo indicano i piani in discussione alle Nazioni Unite, i compiti di peacekeeping passeranno a contingenti turchi, giordani, o africani.
Una pace comunque imperfetta non potrà includere in nessun caso la permanenza di Gheddafi al potere. Dovrà offrire un futuro alla gente della Cirenaica; ma anche rassicurare, sul proprio destino, i cittadini della Tripolitania. In assenza di queste condizioni, la spartizione violenta della Libia, con tutti i suoi rischi, diventerà inevitabile.
(...) Per abbattere Saddam ci sono voluti, dopo i bombardieri, i fanti e i carri armati, e così avrebbe dovuto essere in Libia, visto che i ribelli non possono in alcun modo essere equiparati ad un vero esercito dotato di efficace artiglieria semovente. Poiché lo sbarco di soldati occidentali in quel paese non è stato nemmeno ipotizzabile, eccoci impantanati tra le sabbia libiche senza vera speranza di sbaragliare l’esercito regolare, di stanare Gheddafi e magari di consegnarlo al Tribunale Internazionale. Per fortuna i libici si muovono da soli (evidentemente persa la speranza di ottenere un aiuto risolutivo dagli Occidentali) e stanno freneticamente trattando con il Colonnello e la sua corte al fine chiudere una volta per tutte quella che resta una vicenda interna ad una nazione sovrana.
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