Buona fine anno, e buon nuovo inizio.
Brevi riflessioni, da "non-esperto", su alcune questioni di politica estera che si stanno imponendo alla nostra attenzione di questi giorni.
Non è semplice valutare quanto sta succedendo in Iran; la linea di demarcazione fra conservatori e progressisti non è di facile lettura in una realtà come quella, e in uno scenario così in movimento, tanto che queste proteste sembrano essere nate sotto un segno politico ultraconservatore, per poi "sfuggire di mano".
Quel che forse si può azzardare in ogni caso è che se si dovesse estendere la protesta l'Iran potrebbe avere maggiori difficoltà a gestire il suo ruolo internazionale, teoricamente in questo periodo in via di affermazione. Non è una sorpresa (le tensioni sotto la superficie non sono una novità nella storia recente del paese), ma di questi tempi è il caso di sottolinearlo perché il nuovo protagonismo di Teheran sembra non avere il "respiro lungo" che sarebbe necessario.
Se sono moti di "libertà" (ma la situazione non è mai chiarissima, e dobbiamo essere massimamente prudenti), la comunità internazionale dovrebbe far sentire la sua voce; ma sempre con uno sguardo al dopo, alle possibili conseguenze di un regime in difficoltà.
Comunque situazione molto interessante e stimolante: delicata e da approfondire, senza farsi incantare da "teologie/filosofie della storia improvvisate", ma senza timore di agire, per vie ufficiali o più nascoste, se e quando necessario.
La regola è sempre quella, in politica estera, almeno per chi come noi non è propriamente una superpotenza militare ed economica: cadere sempre in piedi, giocare su più tavoli, scegliere e lanciarsi se necessario, ma mai abbandonarsi. Difendere il proprio onore, se ha senso la parola (in politica ha un senso particolare, diciamo), ma senza perdere inutilmente soldi e vite umane.
Vale per l'Iran, ma vale ancora di più per altre partite che interessano l'Italia: Niger e Libia in primis, collegate forse più di quanto appare.
Cosa andiamo a fare in Niger? E sarà veramente una missione "no-combat" come sembra esser stata delineata? e quali i rapporti con la Francia in questo scenario? Otteniamo qualcosa in cambio del nostro sforzo in Niger, magari sul fronte libico, che sta presentando criticità sempre maggiori (prepariamoci a qualche spallata pesante...)?
E' un cambio di prospettiva "radicale", per l'Italia, che tenta di giocare una partita più "europea" (si vedano le riflessioni di Pasotti più sotto)? Ma è possibile cambiare realmente la politica estera di un paese?
Potrebbe essere, ma io mi augurerei anche qui un po' più di "cinismo" da parte nostra, se vogliamo anche come cittadini osservatori: dobbiamo essere capaci di non rimanere soli, se per caso la situazione libica in particolare dovesse peggiorare. Dobbiamo essere capaci di coniugare - ancora - europeismo non di maniera e atlantismo; sì, atlantismo. Con la nostra diplomazia originale, con la doppiezza inevitabile che ci connota, comunque. Al di là dei risultati elettorali, che non potranno cambiare la nostra posizione nel Mediterraneo, e le nostre necessità.
Se faremo l'Europa unita anche in politica estera, la dobbiamo fare con piena consapevolezza dei costi che ci saranno e che peseranno su tutti noi; e senza dimenticare che sarà sempre un'Europa delle nazioni, degli Stati: con tutte le contraddizioni inevitabili di questa strana architettura, che dovrebbe rendere più coerenti interessi spesso contrapposti.
Prepariamoci con prudenza.
Buona fine anno, e buon nuovo inizio.
Francesco Maria Mariotti
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"(...) Se da un lato l’operazione nel Sahel rappresenterà un test per le capacità della tanto sbandierata difesa europea, dall'altro vedrà inevitabilmente confrontarsi interessi ed egemonie.
Una missione senza senso?
I francesi ”giocano in casa” non solo perché il G-5 Sahel è composto da ex colonie di Parigi ma perché dall'intervento contro i jihadisti in Malì nel 2012 la Francia ha mantenuto una consistente presenza militare nella regione combattendo non senza perdite i gruppi jihadisti.
L’esperienza acquisita e la presenza di basi in tutte le aree strategiche, inclusa quella prioritaria per l’Italia nel deserto tra Niger e Libia, rendono quasi certo che l’operazione con quartier generale a Sévaré (Mali) e comandi tattici in Niger e Mauritania sarà guidata dai francesi.
Grazie ai contingenti europei, Parigi potrà ridurre l’attuale esposizione nell’operazione Barkhane (4mila militari con 30 velivoli e 500 veicoli) sostenuta in questi anni anche grazie al supporto finanziario e logistico statunitense.
Gli Usa conducono già da tempo nel Sahel missioni in gran parte segrete impiegando aerei spia, droni, forze speciali e contractors basati in Burkina Faso e Niger con basi a Ouagadougou, Niamey e Agadez. (...)
La Germania ha già donato un centinaio di veicoli alle forze del Niger (le cui risorse minerarie oggi sfruttate per lo più da francesi e cinesi, potrebbero far gola a Berlino) e potrebbe assegnare alla nuova alleanza il contingente attualmente presente in Malì sotto la bandiera dell’Onu o nuove truppe considerato che Berlino ha una propria base logistica all’aeroporto di Niamey (dove sono presenti anche una base americana e una francese.
Quale ruolo per l’Italia
Il ruolo dell’Italia (più volte chiesto dal Niger negli anni scorsi come Analisi Difesa raccontò nel reportage Roccaforte Niger) dipenderà dalla determinazione di questo e del prossimo governo a inviare un contingente significativo in Niger e soprattutto ad autorizzarne l’impiego in combattimento oltre che per addestrare le forze nigerine. Attività quest’ultima che comincerà tra poche settimane come ha detto il premier Paolo Gentiloni che ha collegato la missione al ritiro di forze oggi in Iraq. (...)
Una missione senza senso?
In termini strategici vale poi la pena chiedersi se un simile dispiegamento abbia attualmente un senso, soprattutto se effettuato in condizioni di subalternità rispetto ai francesi che continuano ad essere (dal 2011) i più importanti competitor dell’Italia rispetto alla situazione in Libia.
La missione in Niger rischia infatti di rivelarsi utile a ridurre l’impegno e i costi di Parigi nell’operazione Barkhane senza però scalfirne la leadership di Parigi nel Sahel mentre circa il contrasto ai flussi migratori illegali non va dimenticato che i trafficanti potrebbero optare per rotte alternative, aggirando il dispositivo militare italiano grazie alle le piste desertiche che attraversano il confine algerino per poi sconfinare in Libia a sud di Ghat, area in cui da alcuni mesi è stata registrata la presenza di miliziani dello Stato Islamico.
In fin dei conti per bloccare i flussi migratori illegali l’arma più efficace (e la meno costosa) in mano all’Italia è rappresentata dai respingimenti sulle coste libiche dei migranti soccorsi in mare in cooperazione con la Guardia costiera di Tripoli.
Si tratta dell’unica azione che scoraggerebbe le partenze da tutta l’Africa garantendo che nessun immigrato illegale potrà mai raggiungere i porti italiani. In altre parole non ha alcun senso inviare truppe e mezzi per bloccare il confine tra Libia e Niger se poi le navi militari italiane ed europee continueranno a sbarcare in Italia i clandestini riusciti a salpare dalle coste libiche."
"(...) Sorge allora la domanda: dove erano gli attentissimi controllori della France-Afrique quando milioni di euro e di dollari dell’assistenza internazionale elargiti a questi capofila del sottosviluppo sparivano nelle tasche dei clan di potere, dei presidenti, dei loro portaborse, benedetti dall'unzione di Parigi? Non è questo sottosviluppo scandalosamente permanente, e non nei tempi preistorici della terza repubblica ma nell'evo di Mitterrand, Chirac, Sarkozy, che ha spinto centinaia di migliaia di disperati che sentono la fame tutti i giorni a mettersi in marcia verso il Mediterraneo e Lampedusa? Non vibra nell'aria una fastidiosa domanda? Ahimè, la Francia ha inventato i diritti umani, ma si è dimenticata di aggiungervi l’anticolonialismo.
E poi: i francesi hanno affidato il potere in Niger e in Mali ai neri, sudditi di cui apprezzavano la supinità all’epoca del colonialismo. Le popolazioni tuareg del Nord si erano mostrate invece perennemente ribelli. Già: dividere per imperare. Perché non hanno impedito che negli anni della indipendenza questi loro alleati, a colpi di emarginazione, disoccupazione, colonizzazione etnica e in qualche caso violenza, facessero guerra permanente ai tuareg? Fino a indurli a arruolarsi nel fanatismo jihadista, diventandone micidiali discepoli? Sono quelli che ci spareranno addosso, nel vecchio pittoresco fortino della Légion… La Francia non ce la fa più, da sola e con pochi denari, a far argine al vasto wagnerismo salafita. Per questo vengono utili i soldati degli alleati europei?
Erano domande che si potevano porre alla Francia, perché no? in sede europea quando è spuntata la richiesta di dare una mano laggiù: siamo o non siamo amici e tra amici non si parla con franchezza e non con avvilimento adulatorio? Non era forse il momento di chieder conto di questa loro politica imperiale, sudicia e redditizia, in Africa? Prima di fornire nuovi avalli pericolosi: non solo con la disattenzione di questi anni ma anche con bandiere e guerrieri? Pretender qualche seppur tardiva abolizione coloniale, affinché anche in questa parte del mondo l’Europa tutta non diventi sinonimo generico di sfruttamento, arroganza e intrusione. Buona e gratuita propaganda per il troglodismo jihadista."
"(...) Eppure sembra proprio questa la strada scelta dal governo Gentiloni: un cambio di linea sottaciuto come da stile del personaggio ma quasi rivoluzionario nella tradizione italiana post conflitto mondiale, un atto di realismo in un momento in cui è venuta a mancare la sponda del liberalismo internazionale americano anche solo nella sciagurata declinazione isolazionista di Barak Obama. Con una America che pensa a se stessa, che sceglie manicheisticamente amici e nemici in una votazione Onu su Gerusalemme Capitale forse voluta più da Washington (per contrastarla e per definirsi) che dagli arabi (costretti a sostenerla), gli spazi per la tradizionale diplomazia militare atlantica italiana si sono ridotti al minimo. Con il Quai d’Orsay invece abbiamo una marea di dossier aperti che riguardano in Libia la rottura tra Tripolitania amica (se ben pagata) e Cirenaica russofrancese (...)
"(...) Haftar s’è costruito un ruolo via via crescente, creando i presupposti per emendare alcuni aspetti del Lpa. Il maresciallo di campo s’è preso credibilità con le armi e col sostegno diplomatico russo (soprattutto), per questo molti governi occidentali – tra cui quello italiano, particolarmente coinvolto nella soluzione della crisi – lo hanno iniziato a trattare come un pezzo imprenscindibile per chiudere il puzzle. Il delegato Onu Gassam Salamé ha cercato negli ultimi mesi di modificare l’accordo del 2015, anche inserendo aspetti a lui favorevoli, ma non si è arrivati a un punto di incontro. D’altronde la deadline del 17 si stava avvicinando, e lo stesso Haftar ha dichiarato: “Le forze armate libiche (chiama così la milizia che comanda, ndr) non saranno mai sotto la guida di alcun corpo non eletto (riferendosi al Gna, ndr), ma risponderanno sempre agli ordini del popolo libico”, ed è un chiaro messaggio sul fallimento di Serraj, un invito a lasciare. Ora Serraj e il suo zoppo Gna sono sotto la proroga temporanea del supporto onusiano ed europeo (qualche giorno fa anche gli Stati Uniti hanno ribadito la fiducia in Serraj, sebbene pure Washington abbia intavolato dialoghi anche con Haftar). Ma il punto attuale è lo stallo, perché nessuno dei due centri di potere può prevaricare l’altro. Salamé ha così proposto nuove elezioni (da tenersi già in primavera?). Serraj non ha più forza (se non dopo un mandato popolare) ma “il suo rivale basato a Tobruk è ancora più disperato. Entrambi i governi hanno poco da offrire per alleviare la miseria quotidiana delle persone che dovrebbero servire, e non è chiaro se Haftar accetterà le elezioni nella Libia orientale, che controlla”, scrive su Al Monitor l’accademico libico Mustafa Fetouri. Fetouri sostiene che l’idea di Salamé di usare le elezioni come elemento di stabilizzazione in questa fase in cui la crisi non vede sbocchi può essere buona, “ma tenere le elezioni in tali circostanze è una grande scommessa”: in Libia c’è una crisi di sicurezza (l’esplosione all’oleodotto è un ultimo passaggio, qualche giorno fa, per esempio, è stato rapito e ucciso da ignoti il sindaco di Misurata), il sud del paese è un territorio ancora senza legge dove le forze costiere non si allungano e comandano gruppi etnici locali (da poco riavvicinati sotto egida Onu), manca una costituzione, manca l’attività politica democratica."
"(...) L’Arabia Saudita non è in grado di condurre direttamente una guerra contro l’Iran e nel caso accadesse può farlo soltanto con il decisivo sostegno americano. E questo nonostante le spese di Riad per la difesa siano state nel 2016 di circa 64 miliardi di dollari e quelle iraniane di 12. Anche i dati dell’economia sono nettamente a favore dei sauditi che vantano un Pil di 650 miliardi di dollari mentre gli iraniani intorno ai 400 miliardi di dollari. Per non parlare della produzione petrolifera: quella saudita è più che doppia rispetto a quella iraniana. Il confronto tra le due economie può diventare ulteriormente penalizzante per l’Iran se gli americani decidessero di imporre nuove sanzioni a Teheran.
I dati sulla potenza militare pendono dal lato iraniano per numero di soldati e in alcuni settori, ma i sauditi possono contare su un arsenale tecnologicamente più avanzato. Eppure i sauditi, che pure godono dell’appoggio aereo degli americani, non riescono neppure a battere la resistenza degli Houthi sciiti zayditi dello Yemen che di recente non solo hanno lanciato un missile vicino a Riad, con il probabile aiuto degli Hezbollah libanesi come addestratori, ma hanno sanguinosamente sfidato Riyadh facendo fuori immediatamente l’ex alleato ed ex presidente Abdullah Saleh quando ha annunciato di volere aprire negoziati con l’Arabia Saudita.
La guerra tra Riad e Teheran resta quindi sempre una guerra per procura e si potrebbe dire anche per fortuna: basti pensare a cosa potrebbe significare in termini di rifornimenti petroliferi sui mercati vedere in fiamme i terminal del Golfo. (...)
Dopo la guerra irachena nel Golfo per l’occupazione del Kuwait, i rapporti tra i due paesi erano migliorati durante la presidenza di Hashemi Rafsanjani ma le tensioni sono riesplose con la caduta di Saddam nel 2003 e l’occupazione americana dell’Iraq. Questo è stato vissuto dai sauditi come un tradimento degli americani che hanno assegnato il potere alla maggioranza sciita emarginando i sunniti che prima controllavano la Mesopotamia ed enormi risorse energetiche. È stato così che l’Iran ha esteso la sua influenza tra gli sciiti dell’Iraq mettendo in agitazione il fronte sunnita e i sauditi che hanno sostenuto al Qaeda, il Califfato, Jabhat al-Nusra e altri gruppi jihadisti in funzione anti-iraniana e anti-Assad.
L’idea dei sauditi era quella di spezzare la cosiddetta Mezzaluna sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi: un asse strategico che dall’arco del Golfo, attraverso la Mesopotamia, arriva fino al Mediterraneo.
Questo è il motivo strategico per cui gli iraniani considerano le loro frontiere reali mille chilometri più avanti rispetto a quelle ufficiali sullo Shatt el-Arab, come ha del resto dichiarato pubblicamente il generale Qassem Soleimani
La guerra in Siria e la campagna saudita in Yemen contro gli Houthi sciiti sono gli ultimi due capitoli del faccia a faccia tra iraniani e sauditi. In Siria l’Iran vuole mantenere al potere Assad e ora, dopo l’intervento militare della Russia, ha accentuato la sua presenza con l’esercito regolare e i Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione. Riad continua a insistere perché Assad venga sbalzato dal potere ma di fatto, insieme alla Turchia e al fronte sunnita, ha perso questa guerra mentre non riesce a vincere neppure quella nel “cortile di casa”, in Yemen, una sorta di Vietnam arabo.
Per questo lo scontro si è fatto ancora più acceso: vincerà non solo chi ha più risorse, tenuta e alleati ma chi saprà attuare la strategia più sofisticata e lungimirante."
"(...) Alcuni (ma non tutti) sostengono che le proteste del primo giorno siano state organizzate dagli ultraconservatori, cioè quelli che fanno riferimento alla Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, l’autorità politica e religiosa più importante del paese. L’obiettivo, dicono alcuni analisti e giornalisti, sarebbe stato quello di indebolire il governo di Rouhani, da sempre in competizione con lo schieramento di Khamenei. Non ci sono prove certe che dimostrino questa tesi, ma Mashhad è una città dove gli ultraconservatori sono molto forti: dove per esempio è molto popolare Ibrahim Raesi, il candidato conservatore che fu battuto da Rouhani alle ultime elezioni presidenziali, a maggio, e che in passato accusò il governo di avere fallito nel mantenere le sue promesse di ripresa economica. Al di là di come sia iniziata tutta questa storia, nel giro di un giorno è andata fuori controllo. Le proteste si sono diffuse in tutto l’Iran e sono diventate qualcosa di diverso da semplici rivendicazioni economiche. Si sono cominciati a sentire slogan contro l’intero sistema della teocrazia islamica in vigore in Iran dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, e contro le decisioni delle élite politiche sia in politica interna che in politica estera. Per esempio si è urlato contro l’appoggio dell’Iran al gruppo estremista sciita Hezbollah e al presidente siriano Bashar al Assad. A Isfahan, città dell’Iran centrale conosciuta per il suo famoso “ponte dei 33 archi“, si sono sentiti i manifestanti urlare direttamente il nome di Khamenei, una cosa piuttosto inusuale. (...)
"Dopo due giorni di decise proteste contro il carovita in diverse città iraniane, oggi nel centro del Paese, a Doraud, nella provincia di Loerstan, si sono registrate le prime vittime: secondo quanto riferiscono fonti locali, almeno sei persone sono state uccise e diverse altre ferite quando la Guardia Repubblicana ha sparato per disperdere una manifestazion e; mentre a Teheran alcune centinaia di studenti sono scesi nelle vie intorno all’università unendosi alle contestazioni e nelle strade del Paese sono state attaccate banche e bruciati ritratti della guida suprema Ali Khamenei. Finora gli arresti hanno riguardato una cinquantina di persone. La Casa Bianca è intervenuta e ha avvertito le autorità di Teheran: «Attenti, il mondo vi sta guardando, gli iraniani ne hanno abbastanza della corruzione del regime e della dissipazione della ricchezza nazionale per finanziare il terrorismo». (...)
"(...) Sui social network sono rimbalzate le immagini delle proteste, registrate anche nelle città di Mashaad, Neyshabur, Kamshmar, Shahrud, Rasht, Tabriz e Isfahan. Secondo quanto filtrato su Telegram e Instagram, i manifestanti scandivano slogan contro il presidente Hassan Rohani o "Indipendenza, libertà, repubblica iraniana". Tra gli slogan anche quelli che sembravano inni in memoria dell'ultimo Scià di Persia, Mohamed Reza Pahlevi, rovesciato nel 1979 dalla rivoluzione islamica guidata dall'ayatollah Khomeini. Tra gli slogan più scanditi quelli contro il clero sciita, accusato di condurre una vita agiata e non in empatia con i problemi reali della società: "La nazione mendica, mentre il clero vive come Dio". Slogan anche contro le spese del regime per alcuni Paesi della regione mentre la popolazione attraversa difficoltà economiche. (...)
"(...) Borzou Daragahi, giornalista di BuzzFeed esperto di Iran, ha scritto che gli slogan che sono stati cantati ieri nelle piazze iraniane sono stati molto simili a quelli delle grandi manifestazioni del 2009, quando il regime di Teheran si trovò a dover affrontare il cosiddetto “movimento dell’Onda Verde”, organizzato dai riformisti iraniani dopo l’elezione a presidente di Mahmud Ahmadinejad. Quelle del 2009 furono le proteste più importanti e significative nella storia recente dell’Iran e furono seguite da una reazione repressiva da parte dello stato. (...)"
"(...) È difficile dire se oggi quall’aiuto ai rivoltosi arriverà, certo è che gli Stati Uniti hanno subito pubblicamente appoggiato la protesta contro gli ayatollah, in un gesto senza precedenti dai toni di Reagan. È lecito dunque pensare che nel caso in cui l’insurrezione prendesse piede gli Stati Uniti potrebbero assistere apertamente e concretamente i rivoltosi. Perché? Perché oggi l’espansione militare iraniana mette in pericolo gli interessi americani, sauditi e israeliani ed un cambio di regime è sicuramente più augurabile di una guerra classica nel Golfo, sia in termini di costi di vite umane sia banalmente in termini di budget, senza contare il rischio politico interno per un presidente che fatica a prendere in mano pienamente le redini del potere.
Eliminare i vertici dello stato iraniano potrebbe essere l’aiuto concreto degli americani alla nuova Rivoluzione iraniana, se e quando mai essa dovesse deflagrare. I metodi usati in altri luoghi del Medioriente (Siria, Libia, Egitto) non sono funzionali allo scenario iraniano, oltre ad essersi dimostrati fallaci ove già impiegati.
Anche per questo motivo è un errore paragonare i moti di piazza dell’opposizione iraniana alle primavere arabe. In tutte le cosiddette “primavere” la motivazione religiosa ed anti-laicista era un pilastro della rivolta, qui invece assistiamo allo scenario opposto, dove gli oppositori protestano per cercare di abbattere un sistema di potere politico-religioso che già controlla un intero paese.
L’attenzione del governo iraniano affinché la rivolta non diventi insurrezione è massima. Le forze di sicurezza hanno finora evitato di impiegare le armi e non fornire nessun martire alla piazza.
Nessuno oggi può sapere cosa accadrà in terra di Persia, ma di una cosa siamo sicuri: non sarà una primavera araba e nessuno degli attori stranieri che dovesse un domani intervenire attuerà l’obamiano motto del “Leading from Behind”.
Le dittature governano con il pugno di ferro, hanno potere di vita e di morte, ma ciclicamente (se non evolvono in una forma di governo più condivisa) sono destinate ad implodere nel caos e nel sangue.
L’Iran di oggi è un paese che può evolvere verso una forma di governo non teocratica oppure implodere per mano delle folle.(...)