L'ottimo articolo di Mario Deaglio di ieri va letto per vari motivi, prima di tutto per la sfida che pone a una politica che - approfittando dei fallimenti del mercato - torna a occupare un posto in prima fila nella vita delle comunità.
Per quanto riguarda i temi di questo blog invece mi preme sottolineare un brevissimo passaggio: "(...) E’ inevitabile che molte missioni militari all’estero debbano essere terminate. (...)".
Da qualche tempo ormai, si alternano voci e analisi che indicano un ripensamento complessivo del nostro impegno internazionale, (ma non vale solo per l'Italia). Probabilmente questo è inevitabile, perché è evidente che fare la guerra costa. Quindi nessuno scandalo se le necessità finanziarie ci spingono a rivedere il nostro ruolo internazionale. Certo è però che un "ritiro" da alcuni scenari è una operazione quanto mai delicata (anche per le ricadute sulla nostra credibilità internazionale), e andrebbe gestita con prudenza, senza dichiarazioni avventate, senza fasi interlocutorie troppo lunghe, ma anche senza fretta.
Importante è anche sapere che - per dirla in una battuta - il nemico ascolta: beninteso, i terroristi, i talebani in Afghanistan, o Hezbollah in LIbano non seguono certo la nostra rassegna stampa quotidiana, ma le "vibrazioni" della politica italiana e occidentale, e soprattutto eventuali "ipotesi di lavoro concrete" rilevano - evidentemente o "sotto traccia" - in ambasciate, università, convegni, contatti di intelligence. Punti, luoghi che sono sicuramente "sotto osservazione".
Da questo punto di vista, anche il recente attentato contro i nostri soldati in Libano può essere letto come "test" per capire se la comunità internazionale "tiene" la posizione, o se il nervosismo sale. Nel secondo caso si accresce la probabilità di un'intensificazione degli attacchi, per tentare di "convincerci" che sarebbe bene abbandonare quella missione.
Se proprio dobbiamo scegliere, dunque, meglio essere netti e mostrare al mondo le nostre priorità: chiudiamo l'inutile guerra in Libia, ridiscutiamo i tempi dell'Afghanistan, ma rimaniamo in Libano.
Francesco Maria Mariotti
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