I dubbi sull'eventuale intervento degli Stati Uniti in Siria aumentano di giorno in giorno, anche se non riguardano l'eventuale commercio di armi (che è da sempre un fenomeno parallelo alle guerre e non può essere di per sé motivo di un sì o un no); al tempo stesso cominciano a esserci ricostruzioni più o meno puntuali sul "piano di azione" di Obama.
Una via - molto stretta e impervia - che sarebbe contrassegnata da due fattori: bombardamento mirato e appoggio alle fazioni "laiche" antiAssad. Il tempo che il Congresso ha dato a Obama - tre mesi - non può bastare sicuramente a "completare l'opera" (se c'è in mente un'opera qualsiasi); forse si deciderà di proseguire "sottotraccia", dopo la fase dei bombardamenti.
Una scommessa del genere è veramente rischiosa, a partire dal fatto che la distinzione fra guerriglieri "laici" e "integralisti" può essere molto difficile a farsi nel concreto dello scenario siriano (si legga l'articolo de ilPost sotto riportato)
Ulteriore passaggio della stessa idea è che dopo il bombardamento - sempre più annunciato, sempre meno rinviabile - si riesca a costringere le parti a una trattativa; questo però io credo voglia dire qualcosa che non viene esplicitato, mi pare: 1. non indebolire troppo Assad, in modo da non rischiare la frana di tutto; e soprattutto 2. minacciare - se non addirittura colpire - anche parte degli insorti.
Ovvero tradurre in termini militari l'ondivago - ma non irrazionale - atteggiamento che secondo alcuni analisti - Daniel Pipes, per esempio - dovrebbe contrassegnare - e forse ha contrassegnato - l'azione dei servizi statunitensi (e non solo) in Siria. Ovvero: non far prevalere nessuno dei contendenti.
Cinico, ma potenzialmente efficace. Ma anche questo tentativo di "portare tutti al tavolo delle trattative" probabilmente è molto difficile da concretizzare. E in ogni caso, basta un niente perché il cerino dia il via ad un fuoco troppo grande , e quasi ingestibile.
Come fa rilevare Guido Olimpio sul Corriere della Sera sono gli stessi generali statunitensi a porre dubbi, a non vedere una concreta linea politica, precondizione necessaria perché la guerra, o comunque un intervento militare seppur limitato, funzioni.
Al di là di questo mio tentativo - probabilmente poco riuscito - di improvvisarmi stratega per capire come andrà a finire, mi sembra molto interessante il finale dell'articolo che Maurizio Molinari ha scritto nei giorni scorsi, segnalando l'ambiguo atteggiamento della Cina. Quasi - dice - a voler significare che il caso Siria appartiene al secolo scorso, non è rilevante per il mondo che si sta costruendo nel XXI secolo.
Già il fenomeno del terrorismo internazionale - volendo, ma è un ragionamento mio - può essere letto come il tentativo estremo di una parte del mondo di rimanere "protagonista" mentre arrivavano segnali evidenti che - per dirla con toni pseudoromantici (e insopportabili) - "la Storia si spostava ad Oriente". Una violenza che nasceva nelle terre protagoniste di una fetta importante della nostra storia energetica, per esempio; storia che andava e va molto rimodulandosi, a partire dalla ricerca di nuove fonti (di cui si è già detto).
Forse la Siria sarà una nuova conferma di questa tendenza, che comprende anche un maggiore "distacco" degli Usa dal ruolo di gendarme del mondo? O la guerra riuscirà a trattenere ancora il mondo nel "secolo breve", mettendo quindi in dicussione gli assetti che vanno a disegnarsi?
Ancora non possiamo dirlo, ma certo l'esito di questo passaggio storico non sarà irrilevente neanche per noi. Non possiamo tifare per la guerra, ma se sarà - e se sarà più lunga del previsto - potrebbero aprirsi spazi impensati di protagonismo per le società occidentali, e per l'Europa in particolare. Sarebbe il caso di prepararsi all'appuntamento, se verrà.
Francesco Maria Mariotti
Il capo di Stato maggiore Martin Dempsey, parlando nell’aprile di quest’anno davanti alla Commissione difesa del Senato, non potrebbe essere più chiaro: "Prima di agire dobbiamo prepararci a quello che viene dopo". I pianificatori temono un vuoto di potere in Siria o una vittoria di forze radicali. A metà maggio, mentre aumentano le segnalazioni sull’uso dei gas, Obama presiede una riunione. Dempsey parte all’offensiva contro Kerry chiedendogli se è consapevole dei rischi che si corrono in caso di un’iniziativa militare. Per i testimoni non se le mandano a dire. Dal Pentagono aggiungono: quelli del Dipartimento di stato hanno una "visione romantica" della ribellione mentre in Siria è in corso una guerra settaria. Riemerge il dilemma di sempre legato ad un eventuale post-Assad. Un’operazione massiccia può aprire le porte ad una vittoria qaedista, ma restare a guardare rischia ugualmente di favorire i "radicali". Rimbomba la domanda dei giorni della campagna in Libia: "Chi sono i ribelli?". Quesito che ha solo risposte incerte.
Guido Olimpio, Corriere della Sera, 8 settembre 2013
Il tassello più importante dello scenario americano sono i ribelli perché Washington ritiene che «dopo i duri colpi inferti al regime» saranno le loro unità a prendere l’iniziativa, esercitando una massiccia pressione contro un regime in affanno. Stiamo parlando delle unità dei ribelli non-jihadiste, addestrate in Turchia e Giordania da istruttori americani, francesi e britannici grazie ad armi fornite da Paesi del Golfo ed ora in arrivo dagli Usa. Alcune di queste unità potrebbero assumere il controllo di singole aree, ai confini con Giordania e Turchia, e le forze jihadiste di Jubat al-Nusra vengono considerate «non così efficienti come alcuni reputano». A dimostrarlo sarebbe il fatto che «ogni volta che si sono trovate davanti i pashmerga curdi hanno battuto in ritirata».(...)
È in una Siria con Assad indebolito e i ribelli rafforzati, che l’amministrazione si propone, a intervento finito, di rilanciare i colloqui per la «transizione», contando sul fatto che il regime non avrà più la forza per opporsi.
Ecco i piani anti-Assad del Pentagono, la Stampa 6 settembre
Prevedere l’inutilità sostanziale dei raid progettati da Obama non comporta affatto negare la necessità di un intervento militare contro la Siria, ma rafforza la constatazione dell’assoluta mancanza da parte dell’attuale Amministrazione americana di una visione concreta degli attori della crisi siriana, peggiorata da una dottrina errata sulle dinamiche del medio oriente. Questo preclude la strada all’unico intervento militare utile e decisivo. Per punire Assad per l’uso di armi chimiche basterebbe fornire armamenti ai ribelli laici (autoblindo e armamento medio e leggero), senza alcun impiego di Forze armate occidentali. Lo scenario siriano presenta una caratteristica politico-militare unica, che non c’era in Libia, in Iraq e in Afghanistan: l’impegno a fianco dei ribelli laici di più di diecimila disertori dell’esercito di Damasco, inclusi gli ufficiali, con eccellente professionalità, ma con armamenti quasi nulli. La principale remora a questa opzione, che avrebbe potuto e dovuto essere dispiegata sin dal 2012, è nota: la presenza in Siria di consistenti nuclei di terroristi islamici. La giusta preoccupazione di non fornire armi ai qaidisti era ed è però facilmente risolvibile. Come ha dimostrato il reportage di Elizabeth O’Bagy pubblicato dal Wall Street Journal e tradotto dal Foglio il 3 settembre, sul terreno le forze dei disertori e dei ribelli nazionalisti sono ben distinte da quelle dei qaidisti, con relativi checkpoint nelle zone liberate. Ma soprattutto è diversificato il retroterra logistico degli uni e degli altri. Turchia, Giordania e Kurdistan iracheno ospitano le retrovie dei disertori e dei nazionalisti e controllano che non vi siano infiltrazioni qaidiste. Il nord del Libano, invece, dove sono impiantate consistenti forze sunnite e islamiste, sostenute da Arabia Saudita e Qatar, è il “santuario” dei qaidisti. Se Barack Obama lavorasse a una coalizione con il fidato re Abdullah II di Giordania (avversario storico degli islamisti, come dei Fratelli musulmani), con il premier turco Recep Tayipp Erdogan (meno fidato, ma pur sempre un democratico e un membro della Nato) e con Massoud Barzani, presidente del Kurdistan iracheno, unica regione democratica del mondo arabo, che sostiene i curdi siriani in armi anche contro i qaidisti, potrebbe rapidamente organizzare una catena di rifornimenti militari determinante per punire Assad per l’uso di armi chimiche e sconfiggere l’Internazionale sciita dei pasdaran iraniani e di Hezbollah.
C’è una via politico-militare seria contro Assad, ma non è quella scelta da Obama, di Carlo Panella (il Foglio, 5 settembre 2013)
Dalla Turchia arriva la notizia della defezione dal regime siriano di Ali Habib, capo di stato maggiore dal 2004 al 2009, poi ministro della Difesa fino al 2011: è il generale alawita più alto in grado ad abbandonare il presidente Assad. La defezione di Habib è interessante non soltanto perché tradisce una spaccatura all’interno dell’establishment alawita, in teoria il più leale con la famiglia Assad, ma anche perché lascia intravedere una possibile, futura mediazione tra opposizione e governo.
La fuga del generale dev’essere stata un’operazione complessa, perché secondo fonti del Foglio era stato confinato in un piccolo appartamento della capitale senza più le sue guardie del corpo personali ed era sorvegliato dal governo, a partire dal tardo 2011. Habib aveva presentato al presidente Assad un piano per negoziare pacificamente con i manifestanti della città di Hama, che allora ospitava le proteste di piazza più grandi della Siria. Assad aveva rifiutato la proposta e aveva ordinato invece di usare la forza e di sparare. Il capo dell’intelligence siriana, Jamil Hassan, aveva visitato il generale proponendogli la creazione di un consiglio militare agli ordini dei servizi segreti e non più del ministero della Difesa, per agire con più efficacia. Habib aveva rifiutato in entrambi i casi: niente spari contro le proteste di Hama e niente subordinazione ai servizi, era stato dimesso dal posto di ministro ed era caduto in disgrazia. Proprio per questo a Damasco il suo nome circolava molto nel 2011 come possibile candidato alla guida di un governo di transizione, che sostituisse Assad e trattasse con l’opposizione, il tutto con la benedizione di Mosca. L’opposizione lo aveva persino riconosciuto come possibile interlocutore, perché non ha responsabilità nella repressione. Poi si era fermato tutto. Fino a due giorni fa.
Il generale che può fare pace in Siria, di Daniele Ranieri (il Foglio, 6 settembre 2013)
Nel video Issa dice, puntando la pistola alla testa di uno dei sette prigionieri: “Per cinquant’anni sono stati complici nella corruzione. Giuriamo al Signore del Trono, questa è la nostra promessa: ci vendicheremo”. Alla fine della recitazione, il comandante e poi gli altri uomini armati sparano ai soldati prigionieri. Secondo la ricostruzione del NYTimes, Issa è animato da un odio feroce nei confronti della minoranza alawita, quella a cui appartiene Assad, e negli ultimi mesi ha gestito un campo di addestramento vicino al confine turco e si è rifornito di armi presso parenti e soci in affari. In un caso anche dal Consiglio Militare Supremo dell’Esercito Libero Siriano, sostenuto dall’Occidente: una prova, scrive Chivers, della situazione estremamente complessa e della difficoltà di fare distinzioni chiare tra i ribelli.
Un dilemma per l'Occidente (ilPost)
Nel duello di San Pietroburgo fra Putin e Obama, evidenziato da scambi di sguardi gelidi al summit e posizionamenti di navi da guerra nel Mediterraneo Orientale, ciò che colpisce è la scelta di Pechino. Xi Jinping si è schierato con Putin, ma evitando la sfida aperta a Obama. La Cina affianca il proprio veto pro-Assad all’Onu a quello di Putin ma poi Xi smorza i toni, parla con Obama di scambi commerciali, investimenti hi-tech e lotta ai cambiamenti climatici. Dando l’impressione di considerare il duello siriano più come un residuo del secolo passato che la genesi dei equilibri di quello nuovo, oramai inoltrato.
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