sabato 10 dicembre 2011

Eutanasia Democratica? (Vita, Morte e Malattia di fronte alla Crisi)


A volte ho l'impressione che non stiamo facendo i conti fino in fondo con quello che può significare essere più poveri, oggi. O, per meglio dire, cosa possa significare rivedere la priorità su cui abbiamo costruito le nostre società. Un breve ma significativo passaggio dell'intervista di Massimo Gaggi a David Brooks ci aiuta a vederlo meglio, a toccarlo con mano. 
Senza sviluppo come sostieni il welfare? Lei di recente ha affrontato il tema, assai delicato, dell`elevato costo delle cure per i malati terminali. Pensa che quelle che fino a ieri chiamavamo le «società del benessere» taglieranno anche qui? 
«Ci eravamo illusi di poter sconfiggere il cancro, ma queste malattie si sono rivelate più complesse del previsto. Più che guarigioni, otteniamo un prolungamento dell`esistenza, grazie a cure assidue. I. dati su quello che si spende negli ultimi sei mesi di vita di questi pazienti sono spaventosi. Ci sono interi Paesi che rischiano la bancarotta per questo. Gli Usa sono uno dei candidati. Da noi l`anziano a reddito medio durante la sua vita lavorativa versa 145 mila dollari per il Medicare e ottiene cure e servizi per 435 mila dollari. La differenza la pagheranno figli e nipoti. È insostenibile. Credo che dovremo riflettere e cambiare i nostri convincimenti morali sul momento estremo della vita: darci nuove regole etiche basate non solo sulla massimizzazione dei giorni di vita biologica. Conta anche la qualità della vita, il modo in cui la si lascia. Quando ho scritto l`editoriale al quale lei fa riferimento, ho avuto moltissime lettere, anche da malati terminali e dai loro congiunti. E quelli che volevano prolungare a tutti i costi la vita, anche di pochi giorni, erano quasi sempre i parenti, non i pazienti». (Da "Il Corriere della Sera" di venerdì 9 dicembre 2011, intervista di M.Gaggi a David Brooks)
Rivedere le nostre priorità potrebbe voler dire di fatto che arriveremo a decidere chi vive e chi muore? Naturalmente Brooks non dice così: parla più attentamente di far prevalere la qualità della vita rispetto alla "massimizzazione dei giorni di vita biologica". 
E forse tutti noi abbiamo pensato - ed è stato anche un tema su cui ci siamo confrontati nel recente passato - "se succede a me; se arrivo a un certo punto, fermatevi con la cura"; forse tutti noi, rispetto alla possibilità di pesare sui nostri cari, ha pensato "se succede a me, se il risultato non è certo, se costa troppo, non andiamo avanti". Assolutamente legittimo, umanissimo, indiscutibile il pensiero personale, e la discussione intima di un nucleo familiare. 
Rimane però un velo di inquietudine, un timore grande, quando questo discorso diventa il nodo di un possibile "ripensamento" delle politiche pubbliche. Se la decisione personale diventa "facilitata" dallo Stato; se in qualche modo dovesse apparire all'orizzonte un (implicito?) "incentivo a non curare"; quale la distanza di una riflessione serena su costi e benefici pubblici della Sanità da una sottile azione di "persuasione alla morte"?
Quanto siamo distanti da una politica - democratica, si badi - dell'eutanasia? Lo dico senza voler alzare la voce, senza gridare allo scandalo, senza voler fare moralismi. Ma il problema va posto.
In generale - anche in connessione con l'allungamento della età lavorativa - sembra venire a cadere la possibilità di una vita serena nella vecchiaia:  e troppo oggi si parla di politiche per i giovani ma ancora pochissimo di politiche per gli anziani, per esempio sul lato del lavoro (quando il combinato disposto di alcuni cambiamenti necessari  - riforma delle pensioni e possibile riforma flessibilizzante del lavoro - può portare a un numero alto di disoccupati in età avanzata...)
Da questo e da altri punti di vista occorre tentare un ragionamento lungo, che ci porti anche a ipotizzare soluzioni nuove e originali; penso che ritorni necessario pensare - come ho già accennato in passato - alla possibilità che il disoccupato venga impiegato in attività pubbliche e collettive, staccandolo da una possibile situazione di emarginazione sociale.
Un ricordo: anni fa un'amica che era stata in Israele mi raccontò di un kibbutz - di cui non ricordo il nome - dove venivano fatti lavorare - anche solo un minimo ("inutile" e "improduttivo"), ma venivano fatti lavorare - due anziani signori, molto avanti con l'età e quasi inabili. 
Venivano fatti lavorare, perché facessero pienamente parte della comunità.
E' una possibilità da pensare e su cui riflettere, su cui fare i necessari calcoli, perché purtroppo i calcoli che propone con lucidità David Brooks li dobbiamo fare.
Ma dobbiamo riflettere, sapendo che nel nostro orizzonte c'è anche l'ombra di una soluzione inquietante. 
Non arrendiamoci.


Francesco Maria Mariotti

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