Il brutto della politica è che spesso non si riesce a discutere del merito delle questioni. Nella velocità (inevitabile?) dell'informazione è più facile cedere alla semplificazione del titolo, piuttosto che perdere qualche minuto in più nel discutere degli argomenti. Oggi è parso che Stefano Fassina, dirigente del Pd, volesse "rottamare Monti", e su questa frase (titolo dell'articolo del Foglio) si è spesa la solita litania di dichiarazioni.
Ora, lo dico da "tifoso" di Monti (perdonatemi l'espressione colloquiale), quell'articolo - al di là del titolo e di alcune semplificazioni retoriche, e al di là dell'ipotesi politica di fondo per quel che riguarda il governo italiano - è molto interessante, per le problematiche che pone, non eludibili; a maggior ragione per chi - e siamo in tanti - ha visto e continua a vedere nel lavoro di Monti e nella possibilità di una qualche forma di prosecuzione di esso (con il professore o senza), una speranza per l'Italia e per l'Europa.
Il tema non è nuovo, e Fassina non è certo il primo a scriverne. In ogni caso l'articolo è da leggere integralmente (più sotto citazione e link); di seguito alcune mie note:
1. il limite del discorso di Fassina mi pare stia nel semplficare la visione della congiuntura attuale, dicendo che "siamo in una nuova fase": se così fosse, sarebbe relativamente semplice uscire dalla crisi. Abbiamo gestito alcuni mali con "ricette di destra", oggi possiamo riprendere "ricette di sinistra". Purtroppo la situazione è più complessa: dall'emergenza debito - che c'è, in particolare per il nostro paese - non siamo ancora usciti. La relativa calma post-intervento BCE (in realtà per il momento solo annunciato, vedremo cosa succederà quando la Spagna chiederà aiuti) non è indice dell'uscita dalla crisi; la difficoltà di interventi di stimolo sul lato della domanda sta anche nel delicato equilibrio che comunque è necessario mantenere sul lato dei conti pubblici.
2. In realtà il discorso è anche di politica pura, oserei quasi dire di politica di potenza. Non possiamo non vedere che all'interno delle dinamiche della crisi economica si giocano anche fattori di potere più "classici", anche se speriamo di non dover vedere una guerra mondiale (con la "scusa" turco-siriana o altre più vicine o più lontane... l'Oriente è in forte tensione da tempo); in ogni caso quella a cui stiamo assistendo è anche una naturale (ma non per questo meno violenta) redistribuzione del peso geopolitico delle aree continentali. Vogliamo semplicemente stare a guardare, o peggio autoinfliggerci danni come con la guerra in Libia? forse è necessario tentare di sfruttare tutte le possibilità perché l'Europa sia protagonista di una nuova concertazione globale, quanto mai necessaria. Lo si è già scritto tante volte: un'Europa che si risana senza avere presente le dinamiche anche geopolitiche che attraversano questa crisi, rischia di ritrovarsi ancora più debole.
3. Concertazione globale significa di fatto regolamentere (ma non cancellare) il "braccio di ferro" fra politica e mercato. Questo non deve scandalizzare: la tensione può essere positiva se non vince completamente nessuna delle due parti. La vittoria completa della politica nel XX secolo ha significato l'eta dei totalitarismi; ma la vittoria completa del mercato vuol dire rischiare di mettere a repentaglio coesione comunitaria, stabilità politica e diritti sociali, che sempre più fanno parte integrante della nostra identità collettiva (riformulabili forse, ma non rinnegabili). Per questo il braccio di ferro deve continuare. Con stop and go inevitabili, con "ricadute protezionistiche" che temo vedremo ben presto sempre più marcate, ma gestibili se la direzione a favore di una sempre più forte integrazione politica sarà costante a livello continentale.
Il futuro delle nostre società è tutto da inventare: per questo non possono bastare le soluzioni rassicuranti di un tempo; ma certo non serve a nessuno nascondere i problemi dietro la maschera di litigi casalinghi e molto effimeri.
Francesco Maria Mariotti
Segue l'articolo di Stefano Fassina
(...) Di fronte alle riemerse contraddizioni interne, la miopia politica, il corporativismo cieco degli interessi forti e la rigidità ideologica di larga parte delle tecnocrazie ha portato a generalizzare all’Eurozona la via mercantilista della Germania. E’ un mercantilismo, però, drammaticamente sbilanciato verso la svalutazione del lavoro, date le debolezze istituzionali ed economiche dei Paesi interessati. A differenza di quello tedesco, non è giocato in un equilibrio (patto) tra capitale e lavoro, ossia in una relazione virtuosa tra investimenti innovativi e moderazione salariale. Ma, al di là della brutalità di attuazione, la via mercantilistica alla correzione degli squilibri macroeconomici è una strada impossibile. Per una ragione semplice e intuitiva: il mercantilismo, per definizione, non è generalizzabile. Affinché qualcuno abbia un surplus commerciale qualcun altro, di almeno pari stazza, deve aver un deficit. Per la Germania, nel primo decennio dell’euro, ha funzionato in quanto le economie periferiche si indebitavano grazie al finanziamento facile delle banche tedesche e francesi. Invece, la speranza di esportazioni nette positive dall’euro-zona verso il resto del mondo è illusoria, poiché: 1) l’area euro è tra le aree economiche più rilevanti del pianeta; 2) i Brics non vogliono e comunque non possono rovesciare il loro sentiero di sviluppo in pochi mesi o pochi anni e 3) gli Stati Uniti, per 20 anni consumatore globale di ultima istanza, sono impegnati a ridurre il loro enorme debito esterno. In sintesi, la rotta mercantilista seguita nell’euro-zona è insostenibile. Genera, inevitabilmente, recessione, disoccupazione, aumento del debito pubblico, aggravamento degli squilibri macroeconomici tra le aree della moneta unica. I risultati conseguiti sono inequivocabili. Le previsioni ufficiali, nonostante i massaggi dei dati sempre rivisti in peggio, pure. La spirale regressiva è tanto più soffocante quanto più intensamente sono applicati i memorandum della troika. Attenzione: il problema non è “soltanto” l’iniquità e la sofferenza sociale e le derive populiste e nazionaliste. Il problema è che i debiti pubblici continuano a aumentare ovunque.
Anche noi siamo prigionieri della soffocante spirale mercantilista. Nonostante previsioni ottimistiche di Pil (-2,4 per cento nel 2012 e -0,2 per cento l’anno prossimo), il debito pubblico (al netto dei contributi al Fondo Salva-Stati) continua a salire: dal 119,9 per cento del 2011 al 123,3 per cento del Pil per il 2013. Il saldo strutturale, indicatore sempre meno significativo ma richiamato dal governo Monti come chiave per riconoscere l’utilità delle misure attuate, scende dallo 0,6 per cento previsto a Settembre 2011 (prima del “Salva Italia”) allo 0,2 per cento del pil indicato a Settembre scorso (dopo “le cure”). L’ultima previsione di “crescita” potenziale diventa ancora più misera in relazione a quanto previsto l’anno prima e scende a valori negativi. Le speranze di ripresa collocate dal Presidente del Consiglio nel primo trimestre del 2013 sono, purtroppo, infondate. Quale driver di domanda dovrebbe tirare l’inversione di tendenza? I consumi delle famiglie subiranno un’ulteriore flessione a causa della maggiore disoccupazione e dell’esaurimento di parte delle indennità di disoccupazione, dei tagli al welfare nazionale e locale, dell’aumento regressivo di prezzi, tasse e tariffe, delle minori disponibilità di risparmio. Gli investimenti delle imprese saranno imbrigliati dalle tristi aspettative di domanda. Il bilancio pubblico accentuerà il suo impatto regressivo dato che l’insieme delle manovre di finanza pubblica approvate nel biennio alle nostre spalle implica ulteriori 25 miliardi tra tagli e maggiori imposte per il 2013. Rimane il miraggio delle esportazioni. E’, appunto, un miraggio poiché, come ricordato sopra, ciascuna economia europea e extraeuropea prova a scaricare sul vicino o sul lontano la sua speranza di maggiore produzione.
“L’agenda Monti”, così acclamata e così poco compresa da Matteo Renzi&C, non funziona. Non per colpa di Monti. Il presidente Monti si è trovato, da un lato, vincolato dall’agenda conservatrice europea e, dall’altro, costretto a confermare gli impegni ancor più restrittivi, sottoscritti per deficit di credibilità politica, dal governo Berlusconi-Bossi-Tremonti. Come indicammo già nella primavera del 2011, l’obiettivo di pareggio di bilancio al 2014 era impossibile. Anticiparlo al 2013, sulla base dei dictat di Bruxelles e Francoforte, unico caso nell’euro-zona, diventava un’avventura autolesionistica, come è sempre più evidente.
Dopo la caduta di Berlusconi, la sintonia culturale del presidente Monti con la linea mercantilista vigente nell’euro-zona è stata un asset importante a recuperare il terreno politico perduto dall’Italia. Tuttavia, ecco il punto decisivo, oggi siamo in un’altra fase. Per ridurre gli squilibri macroeconomici e i debiti pubblici, va data priorità a politiche asimmetriche demand side, sia di domanda privata sia di domanda pubblica per investimenti innovativi. Affidarsi a politiche supply side di svalutazione del lavoro o tagli di tasse e welfare (in ossequio alla falsificata teoria classista dell’expansionary fiscal adjustment di Giavazzi e Alesina) incancrenisce la recessione in depressione.
Oggi, nell’euro-zona va archiviata la via mercantilista e allargata la prospettiva dello sviluppo sostenibile. Invocata dalle forze politiche e sociali progressiste europee, dai liberali consapevoli (i principali columnist del Financial Times da tre anni), oltre che da una valanga di economisti mainstream (si leggano le firme al “A Manifesto for Economic Sense”), ma bollata, per strumentalità o ignavia nell’asfissiante conformismo Italico, come “socialdemocratica, massimalista, di sinistra, indietro di 30 anni”. Oggi, per salvare l’euro e la civiltà del lavoro, ossia la democrazia delle classi medie, le priorità sono:
Fiscal union, per attribuire al Consiglio e al Parlamento europeo, oltre che alla Commissione per la fase istruttoria, il potere di autorizzare ciascun Paese membro a presentare al Parlamento nazionale la legge di bilancio e prevedere sanzioni automatiche;
Nella Fiscal Union, allentamento delle politiche di bilancio pro-cicliche e Golden Rule, come proposto dai Socialisti e Democratici al Parlamento europeo, bloccati dai partiti conservatori; obiettivi di inflazione a due velocità (più elevata per i Paesi core), come suggerito da Olivier Blanchard, chief economist del Fmi; (...)
Ma dove vive Fassina?
RispondiEliminaDiana