Propongo in questo post una rassegna stampa sull'ultimo lavoro di Thomas Piketty, con articoli tratti da vari siti italiani e stranieri: tra gli altri Linkiesta, ilPost, ilfoglio, Dissent, leMonde, leFigaro, ForeignAffairs.
Non ho letto il saggio e ammetto che non so se riuscirò a leggerlo in futuro; quindi preferisco far parlare queste recensioni, senza prendere una posizione troppo netta.
Dal dibattito che sta prendendo piede, ho comunque l'impressione - almeno questo mi permetto di dirlo, visto che è un po' inevitabile "farsi un'idea" delle cose - che su questo lavoro si stiano creando aspettative un po' eccessive, in qualche modo autorizzate dal titolo dell'opera, evocativo di Karl Marx.
Temo che in questa dinamica si faccia presente un antico problema: la continua ricerca di un "paradigma" diverso, "altro" da qullo che la retorica vuole "imperante" del liberalismo/liberismo (che sarebbero da distinguere, ma nella retorica politica si ha difficoltà a farlo).
Il problema è che quando la politica cerca paradigmi "altri", il rischio è che crei più illusioni che reali - ed efficaci - politiche alternative. Speriamo non sia questo il caso.
Francesco Maria Mariotti
In tanti hanno già riassunto il contenuto del Capitale, ma ecco una breve ripassata. Se i precedenti lavori di Piketty si erano concentrati sul profitto – quello che lavoratori e investitori guadagnano – il nuovo libro si concentra sulla ricchezza: quello che possediamo. Usando dati che vanno indietro fino al XVIII secolo, Piketty ha argomentato che quando in un paese la crescita economica rallenta, il profitto generato dalla ricchezza, piuttosto che quello generato dal lavoro, cresce esponenzialmente e aumenta la disuguaglianza. Questo è perché la rendita prodotta dalla ricchezza accumulata ha un valore medio costante di circa il 5 per cento. Se la crescita economica scende sotto quel valore, i ricchi diventano più ricchi. Nel corso del tempo, poi, quelli che ereditano grandi fortune si costruiscono posizioni dominanti nelle relazioni economiche e l’unica cosa che possiamo fare per reagire a questa situazione è votare per delle politiche di redistribuzione. (Qui, infatti, è dove Piketty propone la sua idea di una tassa mondiale sulla ricchezza, anche se forse gli americani, per ora, sarebbero felici anche solo con un aumento delle tassazione sulla rendita finanziaria).
Anche i critici gli concedono il merito di avere rivalutato il ruolo dell’economia politica e della politica economica, nonché di avere costruito un lavoro monumentale, infarcito di dati e frutto di quindici anni di ricerche empiriche, grazie a una squadra di oltre trenta economisti. Le sue previsioni catastrofiche, però, ancorché imbellettate con citazioni balzachiane, sono sembrate eccessive. Alcuni gli hanno rimproverato di essersi focalizzato sull’Occidente, dimenticando che negli ultimi trent’anni la globalizzazione ha consentito a centinaia di milioni di persone di uscire dall’indigenza. Secondo la Banca Mondiale, nel 1981 due uomini su cinque vivevano con meno di un dollaro al giorno, adesso la percentuale è scesa ad uno su sette Nel secondo Dopoguerra l’aspettativa di vita nei developing countries era di 42 anni, oggi è salita a 68 (anche se questi dati non risolvono la questione dell’ineguaglianza di reddito).
Quando dall’analisi si passa poi alla proposta politica, i programmi paiono difficilmente attuabili. Piketty parla dell’introduzione negli Stati Uniti di un’aliquota dell’ottanta per cento sui redditi superiori al milione di dollari (simile a quella lanciata, con grande insuccesso, dal presidente francese Hollande), che, a suo avviso, non solo non intaccherebbe la crescita, ma distribuirebbe più equamente i suoi frutti. Ora, se è vero che molti milionari americani, come Warren Buffet, si sono schierati a favore di alcune imposte, come quella di successione, per rendere meno diseguali le condizioni di partenza, le varie proposte dell’economista francese in materia di tassazione della ricchezza – tra cui un’imposizione a livello mondiale, progressiva, sul capitale – ridurrebbero gli incentivi ad investire, sostengono i critici. Piketty discute anche l’idea di una tassa europea sulla ricchezza, ma, al di là dei rischi di fuga dei capitali verso i paradisi fiscali, si è già visto quante e quali difficoltà ci siano nello stabilire regole comuni, anche a livello comunitario.
Est-ce que vous vous attendiez à des critiques aussi élogieuses dans ce pays, et à la limite plus élogieuses que celles que vous avez reçues en France, alors que les Etats-Unis ont plutôt la réputation d'être moins réceptifs au thème de l'inégalité ?
La réalité, c'est que les inégalités ont beaucoup plus augmenté aux Etats-Unis qu'en Europe au cours des trente ou quarante dernières années. De ce point de vue, ce n'est pas étonnant que le problème soit très présent dans le débat américain. Le retour des inégalités inquiète ici.
Mais les Etats-Unis ont toujours une relation beaucoup plus compliquée avec cette problématique que ce que l'on imagine parfois en Europe. C'est un pays qui a une tradition égalitaire très forte, qui s'est construit autour de cette question en opposition à une Europe elle-même confrontées à des inégalités de classe ou patrimoniales. Ensuite, il ne faut pas oublier que ce sont les Etats-Unis qui, il y a un siècle, ont inventé un système de fiscalité progressif sur les revenus justement parce qu'ils avaient peur de devenir aussi inégalitaire que l'Europe.
James Kenneth Galbraith, économiste keynésien, se montre lui franchement critique dans un article paru dans la revue Dissent.
Ses propres travaux sur les inégalités, s'appuyant sur des données historiques et récentes, l'amènent à contester les prétentions de Thomas Piketty d'être "l'unique héritier de Simon Kuznets, le grand penseur des inégalités du milieu du siècle dernier" et que seule l'étude des registres fiscaux permet d'apprécier ce phénomène.
"Ce qui est faux, martèle James Kenneth Galbraith. En vingt ans de recherche, l'auteur de ces lignes s'est intéressé aux registres des salaires pour mesurer l'évolution des inégalités. Un article publié en 1999 avec Thomas Ferguson arrive aux mêmes conclusions que Thomas Piketty."
Il lui reproche surtout de ne pas bien définir le terme de capital. Le professeur à l'Ecole d'économie de Paris ne distinguerait pas les revenus du capital productif et ceux générés par des actifs financiers. James Kenneth Galbraith estime en effet que l’ennemi, c'est la finance, et ne voit pas comment on peut développer une théorie de la croissance, le projet de Thomas Piketty, à partir de données qui n'ont rien à voir avec le capital productif, nécessaires pour faire tourner la machine.
In sum, Capital in the Twenty-First Century is a weighty book, replete with good information on the flows of income, transfers of wealth, and the distribution of financial resources in some of the world’s wealthiest countries. Piketty rightly argues, from the beginning, that good economics must begin—or at least include—a meticulous examination of the facts. Yet he does not provide a very sound guide to policy. And despite its great ambitions, his book is not the accomplished work of high theory that its title, length, and reception (so far) suggest.
Sa thèse est simple. Après avoir analysé des statistiques portant sur trois siècles et plus de vingt pays, le professeur de l'École d'économie de Paris affirme que les inégalités s'accroissent au profit des seuls héritiers et riches détenteurs du capital. « Si les calculs de Thomas Piketty étaient justes, les 1 % des plus riches devraient posséder toutes les richesses disponibles d'ici 2016 », explique Jean- Philippe Delsol, administrateur délégué de l'Iref, qui démontre la fausse rigueur scientifiquede l'économiste pourfendeur d'un capitalisme mécaniquement producteur d'inégalités dans une note titrée « Capital, croissance et richesses : les tromperies statistiques de Thomas Piketty ».
« À la façon des auteurs marxistes, Thomas Piketty élève son discours à la prétention d'une démonstration scientifique, observe Jean-Philippe Delsol. Il poursuit les courbes comme Malthus au XVIIIe siècle ou le Club de Rome dans les années 1970 le faisaient pour prédire que le monde allait mourir de faim ! »
Contestant les formules mathématiques de l'économiste qui séduit la gauche française et américaine, l'administrateur délégué de l'Iref remarque que l'auteur du Capital au XXIe siècle, qui cite volontiers des écrivains comme Balzac ou Jane Austen, « oublie tout simplement que la science économique reste une science humaine faite de l'analyse des comportements mouvants des individus ».
Il dénonce la fausseté de ses calculs et souligne ses contradictions. D'un côté, l'économiste dénonce les rendements des fortunes les plus élevées. De l'autre, il condamne la retraite par capitalisation.
La prima è che Piketty vuol riportare il dibattito economico ai Tempi di David Ricardo, così atterrito della disparità di valore della terra di fronte all’effetto scarsità rappresentato dalla crescita della popolazione, da proporre mega imposte sulla proprietà: peccato che, all’inizio dell’Ottocento, non potesse prevedere i salti di produttività creati dalle tecnologie successive. Per fortuna, abbiamo tonnellate di evidenze che l’effetto scarsità rappresentato dalla finitezza delle risorse fisiche e della limitata dispersione dei mezzi finanziari non abbia affatto impedito la moltiplicazione dei redditi e del benessere.
La seconda è che Piketty mistifica ciò che avviene globalmente nel mondo, rispetto ai Paesi avanzati: se dagli anni Ottanta il pendolo nei Paesi Ocse è tornato dopo decenni a premiare i ricchi, nel resto del mondo centinaia di milioni di umani sono usciti dall’economia di mera sussistenza diventano consumatori globali. Scusate se è poco, visto che è il consumo la vera molla della crescita (Piketty sembra ignorarlo del tutto, ovviamente è un’ignoranza volontaria).
Terzo: leviamoci dalla testa che il problema italiano sia risolvibile con mega patrimoniali e tassazioni dei redditi ancora più elevate. Noi stiamo soffrendo per l’eccesso di imposte dirette, indirette e patrimoniali che crescono insieme, in questi anni. E quanto al premio dei patrimoni rispetto ai redditi, forse è il caso di rileggere i dati Bankitalia sul deprezzamento dei patrimoni immobiliari nel 2013, per nulla sostituiti dagli andamenti dei redditi da attività finanziarie.
A me questa sembra la solita solfa di Occupy Wall Street, il movimento stradaiolo di qualche tempo fa che piaceva alla gente che piace, il cui obiettivo è colpire l’1 per cento degli straricchi: un tipico caso di filantropia di massa, alimentato dai non poverissimi George Soros e compagni dell’Upper West Side di Manhattan, un problema sociale risolto da alcune cariche a cavallo nei parchi trasformati in tendopoli di primavera e dall’esito di tutte le bolle sociali, lo scoppio. Magari mi sbaglio e mi toccherà leggere Piketty per capire se l’evoluzione della vecchia tiritera contro l’economia di carta ha prodotto nuove analisi scientifiche, e se per combattere uno squilibrio che distrugge ricchezza sia davvero necessario sequestrare la ricchezza ai ricchi con un’imposta straordinaria sui patrimoni dell’80 per cento (il nouveau économiste non ama le mezze misure).
E’ molto più probabile che un cittadino francese riesca a guadagnare 50 mila franchi l’anno grazie ai redditi da capitale di una ricca ereditiera sposata per mera convenienza piuttosto che in ragione del proprio mestiere di avvocato (pur quotatissimo). Così almeno valeva nella Francia di inizio ’800, quella descritta in “Papà Goriot” di Honoré de Balzac, in cui il malizioso Vautrin suggerisce perciò al giovane Rastignac di scegliere oculatamente la propria sposa invece che puntare su una laurea in Legge a pieni voti. Il problema è che oggi è sufficiente cambiare la valuta di riferimento (da franchi a euro) e il ragionamento di Balzac regge alla perfezione. In occidente, infatti, sempre di più la ricchezza prevale sul reddito: questa la tesi principale di “Capital in the Twenty-First Century” (Belknap/Harvard University Press), il saggio dell’economista francese Thomas Piketty, appena tradotto in inglese e che sta facendo molto parlare di sé sulla pubblicistica anglosassone. “Un libro davvero superbo”, lo ha definito Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia, scrivendone lungamente sulla New York Review of Books. “Un libro straordinariamente importante”, ha scritto ieri un commentatore sicuramente meno a sinistra come Martin Wolf del Financial Times. Lawrence Summers, ex segretario al Tesoro di Bill Clinton, ha già annunciato di volerlo recensire. Anche perché la tesi di Summers sulla “stagnazione secolare” del mondo occidentale, che per ragioni strutturali rischia di dover rinunciare per sempre ai ritmi di crescita pre 2008, trova più che una pezza di appoggio nel lavoro di Piketty.
L’economista francese infatti, tra approfondite ricostruzioni storiche e gustosi riferimenti letterari, tra riletture del “Capitale” di Karl Marx e progetti utopici di imposte patrimoniali globali, affronta in maniera tutt’altro che superficiale il tema (popolarissimo) della disuguaglianza. Piketty parla di un ritorno alla Belle Epoque descrivendo l’inesorabile aumento dei redditi da capitale (largamente intesi, dalle rendite finanziarie a quelle immobiliari) rispetto ai redditi da lavoro, una tendenza in corso dagli anni 70 a oggi. (...)
Ben più ottimista sulle sorti dell’economia globale è invece Michael Mandelbaum, studioso della Johns Hopkins University e autore di “The Road to Global Prosperity” (Simon and Schuster). Sono quattro le principale ipotesi di studio suffragate nell’agile volume con riferimenti tanto all’attualità quanto alla storia. Primo, la promozione della crescita economica ha ormai sostituito la guerra e la conquista in cima ai pensieri di quasi tutti i leader politici mondiali. Secondo, la legittimità della politica dipende dalla capacità di assicurare prosperità ai cittadini. Terzo, si è definitivamente affermato un consensus globale attorno all’economia di mercato, le cui alternative si sono sgretolate alla prova della storia. Quarto, conterà sempre di più l’avanzamento della tecnologia che continuerà a promuovere l’integrazione economica globale. “Quella che troviamo nel libro – ha scritto il Wall Street Journal – è in ampia parte il punto di vista dell’establishment rispetto all’economia internazionale”. Non per questo meno rispettabile di altri punti di vista. Il “discredito” per le alternative che sono state presentate finora a “globalizzazione e libero mercato” è difficilmente discutibile. Anche se lo stesso Mandelbaum ammette che la strada per la prosperità, pur avendo una mèta certa, non sarà una passeggiata per tutti. E ancora una volta, a differenza che in passato, potrebbero essere gli occidentali a dover attendersi più sorprese.
Tra i tanti dati che quell’oceano di simboli ha soffocato, uno è sfuggito, a quanto sembra, al dibattito pubblico. Strano, perché si tratta degli obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Development Goals), che rappresentano il fiore all’occhiello delle Nazioni Unite. Ebbene, l’Onu ha constatato di aver raggiunto con cinque anni di anticipo la meta fissata nel 2000, cioè dimezzare il numero di persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno, quelle definite in estrema povertà: dal 1990 al 2010 sono passate dal 43 al 21 per cento, pari a circa un miliardo di donne e uomini, un settimo dell’intera popolazione mondiale. Non è finita, perché ancora un miliardo e 100 mila vivono in condizioni misere e l’Onu ha deciso di far scomparire del tutto questo abisso di degradazione umana entro il 2030. Forse accadrà anche prima, dipende. Da che cosa? Se il passato serve da esempio, la ferita che insanguina la nostra morale verrà curata da un nuovo energico, forsennato, sviluppo mondiale. Può darsi che non accada per i limiti e le contraddizioni che abbiamo visto in opera. Ma se è così allora saranno seri guai. Perché a cambiare le sorti di tanta parte dell’umanità è stato proprio il “capitalismo selvaggio”. Il contributo fondamentale è venuto dalla Cina dove 680 milioni di persone sono uscite dalla miseria tra il 1981 e il 2010 portando il tasso di estrema povertà di quel paese dall’84 al 10 per cento. Ora tocca all’India, all’Indonesia, al Brasile, alla Nigeria. Chi sostiene che la crisi del 2008 ha suonato la campana a morto, ignora che la recessione ha colpito l’Europa e gli Stati Uniti, il resto del mondo (pur con differenze importanti tra aree e nazioni) ha rallentato la sua corsa, ma non si è fermato. E noi non vediamo la riduzione della povertà su scala globale proprio perché non alziamo lo sguardo dall’impoverimento relativo, molto relativo, dell’occidente
Non tutto è avvenuto grazie allo spontaneo dispiegarsi delle forze produttive che tanto affascinava Marx. “Oggi sappiamo meglio come combattere la povertà”, ha scritto l’Economist citando politiche come la Bolsa familia in Brasile (un programma di incentivi decentralizzato), la riforma dello hukou (il sistema di registrazione delle famiglie che dà accesso al welfare) in Cina o i buoni carburante in Indonesia. Ciascun paese ha applicato schemi di trasferimento monetario e di sostegno per accelerare e meglio allocare la ricchezza prodotta. Ma la leva del cambiamento è stata senza dubbio la crescita anche se soloni dell’informazione continuano a sostenere il contrario. Sono ben accompagnati da premi Nobel e star dello show business, tuttavia non serve da attenuante, anzi. (...)
Un libro pubblicato lo scorso autunno in Francia sta mandando in sollucchero la sinistra e irrita la destra. E’ intitolato non senza una certa pompa “Il Capitale nel XXI secolo”, ed è stato scritto da Thomas Piketty, economista quarantenne che ha studiato all’Ena e al Massachusetts Institute of Technology, specializzato nell’analisi della diseguaglianza economica di lungo periodo. Socialista, scrive su Libération e ormai è un guru vero e proprio. E’ sua la proposta di una tassa mondiale sulla ricchezza ed è suo il “regno dell’un per cento” contro il quale si scagliava Occupy Wall Street. Tradotto in inglese, il volume irrompe sui media americani. Il Wall Street Journal lo fa recensire da Christopher DeMuth, l’uomo che ha rilanciato l’American Enterprise Institute, il covo della nuova destra. Il lavoro di Piketty, un migliaio di pagine anche se scritte in stile brillante e comprensibile a tutti, è frutto di 15 anni di ricerche sulla distribuzione della ricchezza nel corso di tre secoli, utilizzando i dati disponibili a cominciare dai documenti più antichi. Ha il merito di affrontare non solo il reddito, ma soprattutto i patrimoni, introducendo così nel dibattito un fattore chiave finora trascurato. DeMuth, nemico giurato del gauchisme, ne consiglia la lettura e lo prende sul serio, anche se ne confuta la tesi di fondo.
La causa dell’ineguaglianza, secondo Piketty, è che il tasso di rendimento del capitale (in media 4-5 per cento l’anno) risulta più alto del tasso di crescita della produzione e del reddito nel lungo periodo. La ricchezza della quale si sono appropriati i capitalisti e i loro “funzionari”, per citare ancora Marx, resta la causa prima della diseguaglianza. Naturalmente non è sempre così, sono all’opera forze che puntano alla convergenza e forze contrarie. Più intenso è lo sviluppo, più si riduce lo squilibrio originario, quindi esistono cicli lunghi in cui le disparità sono minori (come negli anni dopo la Seconda guerra mondiale che i francesi chiamano i trenta gloriosi). Ma con la rivoluzione neoliberista s’è prodotta una frattura insanata, sostiene Piketty. E’ vero che proprio allora comincia il lungo ciclo della globalizzazione, i nuovi trenta gloriosi, però questa volta si accompagna a una inversione di tendenza in senso redistributivo. E, in ultima istanza, proprio l’aumento della diseguaglianza ha covato il crac del 2008 e lo ha reso più grave.
Ogni spiegazione monocausale di fenomeni complessi è destinata a essere smentita. La grande crisi come sappiamo non ha un solo padre. E più tempo passa più convince la tesi di chi la considera una grande trasformazione del capitalismo mondiale nella quale il patrimonio ereditario, vero bersaglio della critica di Piketty, diventa sempre meno importante, una resistenza retrograda alla rivoluzione economico-sociale che sta davanti ai nostri occhi, una ciambella per galleggiare.(...)
E’ passata sotto silenzio (in Italia, ma non sull’International New York Times) una indagine di Eurofond, il centro di ricerca della Commissione europea, secondo la quale in Europa mancano candidati qualificati per coprire i posti di lavoro nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Quest’anno ci sarà circa un milione di posti vacanti, nel 2011 erano appena 250 mila (e sono anni di recessione). I laureati nelle discipline della information technology sono centomila l’anno, dunque la forbice è destinata ad aprirsi. Il 40 per cento delle imprese ha registrato difficoltà a trovare lavoratori con la qualificazione adatta, nel 2008 la quota era del 37 per cento e nel 2005 del 35. Quando era cancelliere, Gerhard Schröder fece scalpore aprendo le porte della Germania a migliaia di ingegneri dall’India. O i bamboccioni della pasciuta, assistita, infiacchita Europa occidentale si danno da fare oppure non ci sono altre soluzioni.
Ora si parla di ripresa senza lavoro anche negli Stati Uniti ed è vero che il tasso di occupazione (ancor più rilevante rispetto a quello di disoccupazione) si è ridotto. Nel 2000 lavoravano 8,2 americani sui dieci nella fascia compresa tra i 25 e i 54 anni, oggi sono 7,6. La recessione è la responsabile principale, ma agiscono fattori di carattere strutturale, a cominciare dalla innovazione tecnologica per finire con le politiche assistenziali o le tasse che colpiscono i salari. E si apre il dibattito sulle politiche attive, dall’apprendistato all’addestramento dei lavoratori licenziati, che nel Nord Europa sono state molto efficaci. L’incredibile crollo dei disoccupati in Germania (giovani compresi) non si spiega solo con la ripresa e la maggiore flessibilità nell’impiego (come ovunque molti dei nuovi impieghi offrono contratti a termine), ma con il ruolo dell’agenzia del lavoro che assorbe chi esce dalla fabbrica, senza farlo uscire dal mercato. I posti sono vuoti per la sfasatura tra domanda e offerta, i neoliberisti hanno ragione. E la recessione, possiamo ignorarla? Replicano seccati i keynesiani. Certo che no, ma anch’essa è la confluenza di mutamenti strutturali esterni (i nuovi rapporti sul mercato mondiale) e interni (l’innovazione tecnologica o i cambiamenti sociali e generazionali). Sono proprio questi fattori a esasperare gli effetti della congiuntura.
Il frutto del lavoro imprenditoriale e manageriale – misurato come quota di nuova ricchezza sullo stock di patrimoni – è emerso nel XX secolo: l’imprenditore lascia un’eredità cospicua, così come il grande dirigente d’azienda. Anche queste eredità crescono per effetto del tasso di rendimento della ricchezza che è maggiore della crescita del reddito. E dunque, anche se in origine si aveva una ricchezza “da capitalista”, questa, per effetto delle eredità, diventa una ricchezza “da rentier”. La concentrazione della ricchezza sembra avere una natura permanente – un’idea non nuova, che richiama Pareto. La si lascia correre, oppure la si tassa di più per attenuare i suoi effetti? E, se la si tassa di più, quanto di più? La si tassa in modo lieve, oppure con intenti da confisca?
Piketty is best known for his collaborations during the past decade with his fellow French economist Emmanuel Saez, in which they used historical census data and archival tax records to demonstrate that present levels of income inequality in the United States resemble those of the era before World War II. Their revelations concerning the wealth concentrated among the richest one percent of Americans -- and, perhaps even more striking, among the richest 0.1 percent -- have provided statistical and intellectual ammunition to the left in recent years, especially during the debates sparked by the 2011 Occupy Wall Street protests and the 2012 U.S. presidential election.
In this book, Piketty keeps his focus on inequality but attempts something grander than a mere diagnosis of capitalism’s ill effects. The book presents a general theory of capitalism intended to answer a basic but profoundly important question. As Piketty puts it:
"Do the dynamics of private capital accumulation inevitably lead to the concentration of wealth in ever fewer hands, as Karl Marx believed in the nineteenth century? Or do the balancing forces of growth, competition, and technological progress lead in later stages of development to reduced inequality and greater harmony among the classes, as Simon Kuznets thought in the twentieth century?"
Thomas Piketty, professor at the Paris School of Economics, isn’t a household name, although that may change with the English-language publication of his magnificent, sweeping meditation on inequality, Capital in the Twenty-First Century. Yet his influence runs deep. It has become a commonplace to say that we are living in a second Gilded Age—or, as Piketty likes to put it, a second Belle Époque—defined by the incredible rise of the “one percent.” But it has only become a commonplace thanks to Piketty’s work. In particular, he and a few colleagues (notably Anthony Atkinson at Oxford and Emmanuel Saez at Berkeley) have pioneered statistical techniques that make it possible to track the concentration of income and wealth deep into the past—back to the early twentieth century for America and Britain, and all the way to the late eighteenth century for France.
The result has been a revolution in our understanding of long-term trends in inequality. Before this revolution, most discussions of economic disparity more or less ignored the very rich. Some economists (not to mention politicians) tried to shout down any mention of inequality at all: “Of the tendencies that are harmful to sound economics, the most seductive, and in my opinion the most poisonous, is to focus on questions of distribution,” declared Robert Lucas Jr. of the University of Chicago, the most influential macroeconomist of his generation, in 2004. But even those willing to discuss inequality generally focused on the gap between the poor or the working class and the merely well-off, not the truly rich—on college graduates whose wage gains outpaced those of less-educated workers, or on the comparative good fortune of the top fifth of the population compared with the bottom four fifths, not on the rapidly rising incomes of executives and bankers.
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