lunedì 28 gennaio 2019

Migranti: le guerre lampo che non funzionano, l'opposizione che non convince

Ho raccolto alcuni articoli reperiti su varie fonti; mi sembra riassumano bene la difficoltà politica di questa fase, fra azioni governative poco utili (se non addirittura dannose per la sicurezza e gli interessi italiani) e un'opposizione poco convincente, che affronta la questione migrazione con argomenti e toni che rischiano di sembrare solo "moralistici", a tratti contraddittori, e - temo - alla fine controproducenti. 

Sullo sfondo, principe tra le altre cose, la questione libica, mai in pace dopo la guerra senza orizzonte del 2011, con una strada diplomatica sempre più difficile, con il dubbio - per quel poco che comprendo - che il coinvolgimento del nostro paese debba passare prima o poi attraverso nuovi interventi militari, o - forse più probabile - attraverso la delega ad altri (il generale Haftar? il figlio di Gheddafi?) che possano "unificare" il paese (se ancora possibile). 

Qui trovate estratti degli articoli; ovviamente è consigliato leggere i testi integrali.
Spero possano essere d'aiuto.

Francesco Mariotti

"(...) La forza di Salvini sta dunque qui, nello strappo «barbarico» che lo spinge dove la sinistra non osa. Come con l’azzardo estremo della chiusura (nominale) dei porti, che ha svelato tanta ipocrisia europea e che però si sta riproponendo in queste ore con la nuova odissea di una nave Sea Watch e 47 profughi, così il vicepremier leghista strappa sui Cara. Solo che da qui cominciano i problemi. Perché chiudere Castelnuovo di botto, con un blitzkrieg, è un’avventura sciagurata in quanto, oltre a colpire diritti soggettivi, mette per strada almeno un quinto degli ospiti. La pattuglia degli Invisibili si ingrossa ulteriormente e le cose andranno peggio nei prossimi mesi con la cacciata progressiva dai centri di chi non ha più la protezione umanitaria ma non può essere rimpatriato in mancanza di accordi coi Paesi d’origine: a migliaia (130 mila in due anni secondo l’Ispi) finiranno nel limbo dei né espulsi e né accolti, in mano alla criminalità.

Dunque la forza di Salvini è anche la sua debolezza, la filosofia della guerra lampo lo imprigiona. Temendo di essere raggiunto da problemi insolubili prima di incassare il dividendo elettorale promesso dai sondaggi, il vicepremier procede per strattoni e fughe in avanti. Si tratta invece di cambiare paradigma: un problema che non riguarda solo lui o il suo governo ma noi europei nell'insieme. Lungimiranti come gattini ciechi, ci siamo ridotti in 500 milioni a litigare su chi apre o chiude i porti a qualche centinaio di profughi sulle navi Ong, mentre l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, ci spiegava che in tutto il pianeta 68,5 milioni di persone nel solo 2017 sono state in fuga da guerre e persecuzioni. La zona più critica di questo disordine mondiale è l’Africa: sono 29 gli Stati coinvolti in guerre o guerriglie e 259 le milizie dal Burkina-Faso al Sudan, dalla Nigeria al Congo alla Somalia e, ovviamente, alla Libia che, al momento, non è neppure più uno Stato (dunque non si capisce in base a quale finzione possa essere titolare di una zona Sars, Search and Rescue, dove infatti non si viene salvati ma condotti a morte). Il summit di Ouagadougou ha previsto che nel 2030, causa desertificazione, saranno 135 milioni i «profughi climatici» e di essi 60 milioni saliranno dall’Africa sub sahariana al Nord Africa e (infine) all’Europa. Di fronte a questi dati enormi appaiono assai miopi due visioni.

La prima, della destra sovranista, riduce migrazioni bibliche a epifenomeno di un fenomeno criminale: il traffico di esseri umani degli scafisti con la «complicità» di alcune Ong. Sostenere che fermate le Ong si fermino i viaggi è contraddetto dalla realtà (arrivano tuttora boat people a Lampedusa): l’unico risultato è tornare a prima del 2013 e di Mare Nostrum, con più naufragi e morti. La seconda visione, tuttavia, è altrettanto fuorviante, ed è quella irenica della sinistra altermondista: mentre accogliamo tutti basta aprire relazioni amichevoli, insegnare mestieri sul posto e sarà fatta, gli africani si riscatteranno da soli. Non è così. E non solo perché, ovviamente, non possiamo accogliere tutti, pena conflitti sociali ingestibili. Il primo passo, perché questo sogno di riscatto sia reale, è garantire dalle varie Boko Haram, Ansar al-Shari’a e milizie criminali assortite i nostri tecnici, maestri, medici: significa essere disposti a combattere. Il secondo passo è evitare che gli investimenti umanitari finiscano nei conti offshore dei mille dittatorelli locali. Per questo le liti con i tedeschi sulla missione Sophia o coi francesi sul loro presunto neocolonialismo sono nocive per tutti: il piano Marshall africano di cui parla Antonio Tajani ha senso solo se siamo in grado di seguire e proteggere quei miliardi di euro; un esercito comune europeo, domani, ci sarebbe necessario almeno quanto una vera unione bancaria.

Nell'immediato i soccorsi sono doverosi. Ma più doveroso ancora, per governi europei degni di questo nome, sarebbe mettere adesso le premesse perché, domani, 375 milioni di giovani africani, che nei prossimi 15 anni saranno in età per lavorare, possano farlo senza scappare. (...)"


"La paura ci rende pazzi, come ha detto papa Francesco, ma ci porta anche all’insonnia della ragione. Per ogni migrante espulso, cacciato da un centro di accoglienza, a causa dell’abrogazione della protezione umanitaria, che lascia per strada chi aveva un permesso di soggiorno in scadenza o scaduto. La paura rende pazzi, ma c’è un ma. Chi per anni ha studiato le sbagliate o mancate politiche di accoglienza, fatte alla rinfusa, perché c’erano esseri umani da salvare e il resto veniva dopo, sempre dopo, ora, davanti al putiferio scatenato dal piano di chiusura dei grossi centri di accoglienza, storce un po’ il naso. Sono anni che organizzazioni autorevoli della società civile, Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) in primis, denunciano le falle di un sistema di accoglienza fatto di maxi centri per migranti. A discapito di un modello alternativo di accoglienza diffusa, in cui la distribuzione dei richiedenti asilo sui territori permette di non intaccare i fragili equilibri sociali e di garantire un’integrazione concreta e mirata.

Giusto opporsi alle norme che frenano quella parziale integrazione realizzata. Restare umani è un imperativo.

Ma in molti di quei centri che dovranno essere chiusi, che non dovevano essere creati, 6 mila persone nei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) e i nei Cas (137 mila persone), c’era già la manovalanza per le mafie locali e straniere. Ascolto da anni i racconti dei volontari, pazzi anche loro ma di rabbia, perché vedono la mala gestione di molti centri, dove si chiudono gli occhi davanti alla tratta delle nigeriane, al racket dell’elemosina e allo spaccio di stupefacenti. (...)"


"(...) Tre giorni fa, per cominciare, Salvini ha detto che Sophia, la missione europea di contrasto al traffico di esseri umani nel Mediterraneo, può concludersi in qualsiasi momento, avendo “come ragione di vita che tutti gli immigrati soccorsi vengano fatti sbarcare solo in Italia”. Salvini forse non lo sa, ma come è stato ricordato bene ieri da Repubblica il mandato di Sophia non prevede il salvataggio dei migranti bensì unicamente la lotta a scafisti e trafficanti d’armi e l’addestramento della Guardia costiera libica, indispensabile per fare quello a cui Salvini tra un mojito e un altro non sembra essere interessato: occuparsi di come aiutare Serraj a governare i flussi che partono dalla Libia. Colpire Sophia, dunque, non significa colpire l’Europa ma significa colpire l’Italia.
E lo stesso atteggiamento autolesionista Salvini lo ha messo in campo quando il governo del cambiamento si è occupato di altri dossier. Uno su tutti: la modifica del trattato di Dublino. Il trattato di Dublino, come sapete, prevede che il primo stato membro in cui viene registrata una richiesta di asilo è responsabile della richiesta d’asilo del rifugiato e nel contratto di governo Salvini e Di Maio hanno promesso di voler portare avanti “la revisione del Regolamento di Dublino e l’equa ripartizione dei migranti tra tutti i paesi dell’Ue”. Anche qui, l’atteggiamento avuto finora dal governo è stato controproducente. I campioni del sovranismo tendono a non ricordarlo, ma lo scorso anno il Parlamento europeo ha approvato una legge – non votata dal Movimento 5 stelle e addirittura bocciata dalla Lega – che cancella il criterio che il primo paese di accesso debba essere quello in cui il migrante presenta la richiesta d’asilo. Il problema è che alla fine di giugno il primo Consiglio europeo a cui ha partecipato il presidente Conte ha creato le condizioni per non modificare mai più quel trattato, accettando il principio imposto dai paesi di Visegrád che ogni modifica del trattato di Dublino debba essere decisa all’unanimità dei paesi dell’Unione europea (è sufficiente dunque che uno dei paesi europei amici di Salvini ponga il veto alla modifica del trattato per non modificarlo più). (...)"

mercoledì 29 agosto 2018

Europa Terra Di Pace

(Con riferimento alle polemiche di queste ore)


Se proprio dovessimo schierarci, mi verrebbe da dire "con Merkel e con la Germania"; ma sarebbe meglio dire con l'Europa come economia sociale di mercato. 

No ai nazionalismi, ma no anche ai leaderismi che alla fine aprono anche involontariamente la strada ai populismi.

Europa terrà di libertà e solidarietà, non di sfide fra stati e leader politici.

Europa terra di pace.

Francesco Maria Mariotti

***
vd. anche i post riguardanti in modo più o meno diretto l'economia sociale di mercato e in particolare quello su Ludwig Erhard e l'Economia Sociale di Mercato

mercoledì 11 aprile 2018

Facebook e la guerra di potere (C.Blengino, ilPost)

In attesa che la tensione internazionale attorno alla Siria si concretizzi (forse già nelle prossime ore?) in una qualche azione dai contorni probabilmente "ambigui" (come sempre più spesso avviene nelle guerre, si inizia, non si sa come si continua, si fa qualcosa per non stare fermi, si osa ma non fino all'inverosimile; in questo senso queste crisi mettono sempre più in evidenza una sorta di "impotenza generalizzata" che confina, nella pratica, con una ricerca di "non-vittoria" per nessuna delle parti, di cui già in passato abbiamo avuto segni), si può guardare a un'altra partita, per certi aspetti più "vicina" e forse non mano importante.

Segnalo in questo senso una riflessione, apparsa sul Post, che mi pare centrare meglio di altre  - sia pure in termini che naturalmente possono e devono essere discussi - la questione sottostante la battaglia attorno agli scandali su Facebook e social network in generale.

Buona lettura

Francesco Maria Mariotti

***

"Parto da lontano, da un articolo apparso su The Foreign Affairs oltre 30 anni fa a firma George P. Shultz, all’epoca Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America.
L’articolo dal titolo Shaping American Foreign Policy: New Realities and New Ways of Thinking è del 1985: c’era Reagan e la guerra fredda e il termine social network era probabilmente relegato in qualche libro di sociologia; non c’era il web e dunque non c’era ciò che oggi i più identificano con internet, ma internet c’era e c’erano i computer.

Nella parte finale dello scritto (la parte V) Shultz lega le politiche neoliberiste della presidenza Reagan a quello che appariva, in America, come l’onda impetuosa della società dell’informazione: la rivoluzione digitale e il neoliberismo della “reaganomics” sarebbero diventate la più temibile arma di espansione degli Stati Uniti nel mondo.(....)

Nel 1985 (in realtà sin dagli anni ‘60) in America avevano ben chiaro che la rivoluzione digitale sarebbe stata una questione non solo tecnologica, di efficienza e di mercato, ma soprattutto una questione di potere. Avevano chiaro che con internet, disporre e controllare grandi quantità di dati e possedere capacità di calcolo sarebbe diventata un’arma globale in grado di erodere e modificare i centri del potere, economico e statuale.

La scelta di delegare questo potere alle proprie imprese commerciali liberando e sfruttando il loro potenziale grazie all’architettura aperta della rete è stata una scelta politica, lucida e consapevole. E vincente.
Non ci si può stupire oggi del ruolo che Facebook, Google ed in generale delle tech company americane esercitano in Europa e non solo. Capire il valore delle tecnologie digitali voleva dire sin dall’origine cogliere se non l’esistenza di un nuovo potere, certamente intuire la profonda mutazione nell’esercizio del potere, tanto economico quanto sociale. I nostri politici temo non l’abbiano capito neanche oggi, mentre starnazzano contro Facebook.

Buona parte del manifesto di Shultz si è realizzata.

L’Europa ha commesso esattamente l’errore preconizzato nell’articolo: negli ultimi trent’anni, per ragioni astrattamente condivisibili, dalla tutela della proprietà intellettuale alla (parziale e inefficace) protezione dei dati personali sino alle politiche fiscali, si è da subito tentato di governare e regolamentare il flusso di dati e contenuti, e nel far ciò si è ottenuto un unico risultato: deprimere e comprimere le imprese europee che operano sul web avvantaggiando le imprese statunitensi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

La colonizzazione di quel territorio globale che è l’infosfera si è realizzata come pianificato e quella “sfida al concetto stesso di sovranità nazionale ed al ruolo dei governi nella società” preconizzata da Shultz oltre 30 anni fa emerge evidente nello schizofrenico dibattito su fakenews e propaganda, sui giganti del web, su Facebook nel caso Cambridge Analytica ed in generale sul ruolo dei social network e dei BigData.

Dove Shultz ha sbagliato è nell’ottimistica previsione del “dilemma del dittatore”, nella visione di internet come salvifico veicolo di democrazia.

Gli stati autoritari, liberi da vincoli costituzionali, hanno infatti colto meglio e prima di altri le opportunità di propaganda e controllo di massa offerti dalla rete e dalla digitalizzazione, sfruttando efficacemente il potere dei dati per consolidare i loro regimi. Non è un caso se sul tema della disinformazione aleggia sempre, a torto o a ragione, lo spettro di Putin.

Gli stati democratici si stanno organizzando, ma soffrono inevitabilmente di maggiori vincoli. 

Il potere conferito dalla rivoluzione digitale, ben chiaro a Shultz, è saldamente nelle mani (rectius, nei server e nelle macchine) delle imprese commerciali (prevalentemente statunitensi) ed è un potere ben superiore a quanto ipotizzabile nel 1985, prima che il web, gli smartphone e l’internet delle cose producessero la capillare digitalizzazione delle nostre vite e la capacità di calcolo raggiungesse l’attuale potenza.

Oggi la stessa delega di potere scientemente conferita dal governo degli Stati Uniti alle proprie imprese vacilla.
L’immagine dei rappresentanti di Facebook, Twitter e Google in piedi che giurano davanti alla Commissione del Senato USA nel 2017 per il Russiagate ne è forse la rappresentazione più evidente: anche negli USA qualcosa sta cambiando.

E il fatto che la guerra alle grandi piattaforme sia esplosa, anche in America, sul tema artefatto e strumentale delle fakenews la dice lunga.

Stiamo assistendo da tempo, e in questi giorni con toni parossistici nei confronti di Facebook, ad una guerra di potere che temo abbia poco o nulla a che fare con la difesa dei diritti fondamentali dei cittadini.
Gli Stati stanno solo tentando di controllare e sfruttare i medesimi dati abilmente generati e “lavorati” dalle tech company per fini commerciali e di recuperare un divario di potere che loro stessi, più o meno consciamente, hanno generato.(...)"


domenica 31 dicembre 2017

Prepararsi Con Prudenza. In Niger E In Libia. E In Iran.

Buona fine anno, e  buon nuovo inizio. 
Brevi riflessioni, da "non-esperto", su alcune questioni di politica estera che si stanno imponendo alla nostra attenzione di questi giorni.

Non è semplice valutare quanto sta succedendo in Iran; la linea di demarcazione fra conservatori e progressisti non è di facile lettura in una realtà come quella, e in uno scenario così in movimento, tanto che queste proteste sembrano essere nate sotto un segno politico ultraconservatore, per poi "sfuggire di mano".

Quel che forse si può azzardare in ogni caso è che se si dovesse estendere la protesta l'Iran potrebbe avere maggiori difficoltà a gestire il suo ruolo internazionale, teoricamente in questo periodo in via di affermazione. Non è una sorpresa (le tensioni sotto la superficie non sono una novità nella storia recente del paese), ma di questi tempi è il caso di sottolinearlo perché il nuovo protagonismo di Teheran sembra non avere il "respiro lungo" che sarebbe necessario. 

Se sono moti di "libertà" (ma la situazione non è mai chiarissima, e dobbiamo essere massimamente prudenti), la comunità internazionale dovrebbe far sentire la sua voce; ma sempre con uno sguardo al dopo, alle possibili conseguenze di un regime in difficoltà.

Comunque situazione molto interessante e stimolante: delicata e da approfondire, senza farsi incantare da "teologie/filosofie della storia improvvisate", ma senza timore di agire, per vie ufficiali o più nascoste, se e quando necessario.

La regola è sempre quella, in politica estera, almeno per chi come noi non è propriamente una superpotenza militare ed economica: cadere sempre in piedi, giocare su più tavoli, scegliere e lanciarsi se necessario, ma mai abbandonarsi. Difendere il proprio onore, se ha senso la parola (in politica ha un senso particolare, diciamo), ma senza perdere inutilmente soldi e vite umane.

Vale per l'Iran, ma vale ancora di più per altre partite che interessano l'Italia: Niger e Libia in primis, collegate forse più di quanto appare.

Cosa andiamo a fare in Niger? E sarà veramente una missione "no-combat" come sembra esser stata delineata? e quali i rapporti con la Francia in questo scenario? Otteniamo qualcosa in cambio del nostro sforzo in Niger, magari sul fronte libico, che sta presentando criticità sempre maggiori (prepariamoci a qualche spallata pesante...)?

E' un cambio di prospettiva "radicale", per l'Italia, che tenta di giocare una partita più "europea" (si vedano le riflessioni di Pasotti più sotto)? Ma è possibile cambiare realmente la politica estera di un paese?
Potrebbe essere, ma io mi augurerei anche qui un po' più di "cinismo" da parte nostra, se vogliamo anche come cittadini osservatori: dobbiamo essere capaci di non rimanere soli, se per caso la situazione libica in particolare dovesse peggiorare. Dobbiamo essere capaci di coniugare - ancora - europeismo non di maniera e atlantismo; sì, atlantismo. Con la nostra diplomazia originale, con la doppiezza inevitabile che ci connota, comunque. Al di là dei risultati elettorali, che non potranno cambiare la nostra posizione nel Mediterraneo, e le nostre necessità.

Se faremo l'Europa unita anche in politica estera, la dobbiamo fare con piena consapevolezza dei costi che ci saranno e che peseranno su tutti noi; e senza dimenticare che sarà sempre un'Europa delle nazioni, degli Stati: con tutte le contraddizioni inevitabili di questa strana architettura, che dovrebbe rendere più coerenti interessi spesso contrapposti. 

Prepariamoci con prudenza. 
Buona fine anno, e  buon nuovo inizio.

Francesco Maria Mariotti

(Chi scrive è dipendente del Consiglio regionale della Lombardia; naturalmente le opinioni di questo post sono espresse a titolo puramente personale)


***

"(...) Se da un lato l’operazione nel Sahel rappresenterà un test per le capacità della tanto sbandierata difesa europea, dall'altro vedrà inevitabilmente confrontarsi interessi ed egemonie.

I francesi  ”giocano in casa” non solo perché il G-5 Sahel è composto da ex colonie di Parigi ma perché dall'intervento contro i jihadisti in Malì nel 2012 la Francia ha mantenuto una consistente presenza militare nella regione combattendo non senza perdite i gruppi jihadisti.


L’esperienza acquisita e la presenza di basi in tutte le aree strategiche, inclusa quella prioritaria per l’Italia nel deserto tra Niger e Libia, rendono quasi certo che l’operazione con quartier generale a Sévaré (Mali) e comandi tattici in Niger e Mauritania sarà guidata dai francesi.

Grazie ai contingenti europei, Parigi potrà ridurre l’attuale esposizione nell’operazione Barkhane (4mila militari con 30 velivoli e 500 veicoli) sostenuta in questi anni anche grazie al supporto finanziario e logistico statunitense.

Gli Usa conducono già da tempo nel Sahel missioni in gran parte segrete impiegando aerei spia, droni, forze speciali e contractors basati in Burkina Faso e Niger con basi a Ouagadougou, Niamey e Agadez. (...)

La Germania ha già donato un centinaio di veicoli alle forze del Niger (le cui risorse minerarie oggi sfruttate per lo più da francesi e cinesi, potrebbero far gola a Berlino) e potrebbe assegnare alla nuova alleanza il contingente attualmente presente in Malì sotto la bandiera dell’Onu o nuove truppe considerato che Berlino ha una propria base logistica all’aeroporto di Niamey (dove sono presenti anche una base americana e una francese. 

Quale ruolo per l’Italia

 Il ruolo dell’Italia (più volte chiesto dal Niger negli anni scorsi come Analisi Difesa raccontò nel reportage Roccaforte Niger)  dipenderà dalla determinazione di questo e del prossimo governo a inviare un contingente significativo in Niger e soprattutto ad autorizzarne l’impiego in combattimento oltre che per addestrare le forze nigerine. Attività quest’ultima che comincerà tra poche settimane come ha detto il premier Paolo Gentiloni che ha collegato la missione al ritiro di forze oggi in Iraq. (...) 

Una missione senza senso?

 In termini strategici vale poi la pena chiedersi se un simile dispiegamento abbia attualmente un senso, soprattutto se effettuato in condizioni di subalternità rispetto ai francesi che continuano ad essere (dal 2011) i più importanti competitor dell’Italia rispetto alla situazione in Libia.

La missione in Niger rischia infatti di rivelarsi utile a ridurre l’impegno e i costi di Parigi nell’operazione Barkhane senza però scalfirne la leadership di Parigi nel Sahel mentre circa il contrasto ai flussi migratori illegali non va dimenticato che i trafficanti potrebbero optare per rotte alternative, aggirando il dispositivo militare italiano grazie alle le piste desertiche che attraversano il confine algerino per poi sconfinare in Libia a sud di Ghat, area in cui da alcuni mesi è stata registrata la presenza di miliziani dello Stato Islamico.

In fin dei conti per bloccare i flussi migratori illegali l’arma più efficace (e la meno costosa) in mano all’Italia è rappresentata dai respingimenti sulle coste libiche dei migranti soccorsi in mare in cooperazione con la Guardia costiera di Tripoli.

Si tratta dell’unica azione che scoraggerebbe le partenze da tutta l’Africa garantendo che nessun immigrato illegale potrà mai raggiungere i porti italiani.  In altre parole non ha alcun senso inviare truppe e mezzi per bloccare il confine tra Libia e Niger se poi le navi militari italiane ed europee continueranno a sbarcare in Italia i clandestini riusciti a salpare dalle coste libiche."


"(...) Sorge allora la domanda: dove erano gli attentissimi controllori della France-Afrique quando milioni di euro e di dollari dell’assistenza internazionale elargiti a questi capofila del sottosviluppo sparivano nelle tasche dei clan di potere, dei presidenti, dei loro portaborse, benedetti dall'unzione di Parigi? Non è questo sottosviluppo scandalosamente permanente, e non nei tempi preistorici della terza repubblica ma nell'evo di Mitterrand, Chirac, Sarkozy, che ha spinto centinaia di migliaia di disperati che sentono la fame tutti i giorni a mettersi in marcia verso il Mediterraneo e Lampedusa? Non vibra nell'aria una fastidiosa domanda? Ahimè, la Francia ha inventato i diritti umani, ma si è dimenticata di aggiungervi l’anticolonialismo. 

E poi: i francesi hanno affidato il potere in Niger e in Mali ai neri, sudditi di cui apprezzavano la supinità all’epoca del colonialismo. Le popolazioni tuareg del Nord si erano mostrate invece perennemente ribelli. Già: dividere per imperare. Perché non hanno impedito che negli anni della indipendenza questi loro alleati, a colpi di emarginazione, disoccupazione, colonizzazione etnica e in qualche caso violenza, facessero guerra permanente ai tuareg? Fino a indurli a arruolarsi nel fanatismo jihadista, diventandone micidiali discepoli? Sono quelli che ci spareranno addosso, nel vecchio pittoresco fortino della Légion… La Francia non ce la fa più, da sola e con pochi denari, a far argine al vasto wagnerismo salafita. Per questo vengono utili i soldati degli alleati europei? 

Erano domande che si potevano porre alla Francia, perché no? in sede europea quando è spuntata la richiesta di dare una mano laggiù: siamo o non siamo amici e tra amici non si parla con franchezza e non con avvilimento adulatorio? Non era forse il momento di chieder conto di questa loro politica imperiale, sudicia e redditizia, in Africa? Prima di fornire nuovi avalli pericolosi: non solo con la disattenzione di questi anni ma anche con bandiere e guerrieri? Pretender qualche seppur tardiva abolizione coloniale, affinché anche in questa parte del mondo l’Europa tutta non diventi sinonimo generico di sfruttamento, arroganza e intrusione. Buona e gratuita propaganda per il troglodismo jihadista."


"(...) Eppure sembra proprio questa la strada scelta dal governo Gentiloni: un cambio di linea sottaciuto come da stile del personaggio ma quasi rivoluzionario nella tradizione italiana post conflitto mondiale, un atto di realismo in un momento in cui è venuta a mancare la sponda del liberalismo internazionale americano anche solo nella sciagurata declinazione isolazionista di Barak Obama. Con una America che pensa a se stessa, che sceglie manicheisticamente amici e nemici in una votazione Onu su Gerusalemme Capitale forse voluta più da Washington (per contrastarla e per definirsi) che dagli arabi (costretti a sostenerla), gli spazi per la tradizionale diplomazia militare atlantica italiana si sono ridotti al minimo. Con il Quai d’Orsay invece abbiamo una marea di dossier aperti che riguardano in Libia la rottura tra Tripolitania amica (se ben pagata) e Cirenaica russofrancese (...)


"(...) Haftar s’è costruito un ruolo via via crescente, creando i presupposti per emendare alcuni aspetti del Lpa. Il maresciallo di campo s’è preso credibilità con le armi e col sostegno diplomatico russo (soprattutto), per questo molti governi occidentali – tra cui quello italiano, particolarmente coinvolto nella soluzione della crisi – lo hanno iniziato a trattare come un pezzo imprenscindibile per chiudere il puzzle. Il delegato Onu Gassam Salamé ha cercato negli ultimi mesi di modificare l’accordo del 2015, anche inserendo aspetti a lui favorevoli, ma non si è arrivati a un punto di incontro. D’altronde la deadline del 17 si stava avvicinando, e lo stesso Haftar ha dichiarato: “Le forze armate libiche (chiama così la milizia che comanda, ndr) non saranno mai sotto la guida di alcun corpo non eletto (riferendosi al Gna, ndr), ma risponderanno sempre agli ordini del popolo libico”, ed è un chiaro messaggio sul fallimento di Serraj,  un invito a lasciare. Ora Serraj e il suo zoppo Gna sono sotto la proroga temporanea del supporto onusiano ed europeo (qualche giorno fa anche gli Stati Uniti hanno ribadito la fiducia in Serraj, sebbene pure Washington abbia intavolato dialoghi anche con Haftar). Ma il punto attuale è lo stallo, perché nessuno dei due centri di potere può prevaricare l’altro. Salamé ha così proposto nuove elezioni (da tenersi già in primavera?). Serraj non ha più forza (se non dopo un mandato popolare) ma “il suo rivale basato a Tobruk è ancora più disperato. Entrambi i governi hanno poco da offrire per alleviare la miseria quotidiana delle persone che dovrebbero servire, e non è chiaro se Haftar accetterà le elezioni nella Libia orientale, che controlla”, scrive su Al Monitor l’accademico libico Mustafa Fetouri. Fetouri sostiene che l’idea di Salamé di usare le elezioni come elemento di stabilizzazione in questa fase in cui la crisi non vede sbocchi può essere buona, “ma tenere le elezioni in tali circostanze è una grande scommessa”: in Libia c’è una crisi di sicurezza (l’esplosione all’oleodotto è un ultimo passaggio, qualche giorno fa, per esempio, è stato rapito e ucciso da ignoti il sindaco di Misurata), il sud del paese è un territorio ancora senza legge dove le forze costiere non si allungano e comandano gruppi etnici locali (da poco riavvicinati sotto egida Onu), manca una costituzione, manca l’attività politica democratica."


"(...) L’Arabia Saudita non è in grado di condurre direttamente una guerra contro l’Iran e nel caso accadesse può farlo soltanto con il decisivo sostegno americano. E questo nonostante le spese di Riad per la difesa siano state nel 2016 di circa 64 miliardi di dollari e quelle iraniane di 12. Anche i dati dell’economia sono nettamente a favore dei sauditi che vantano un Pil di 650 miliardi di dollari mentre gli iraniani intorno ai 400 miliardi di dollari. Per non parlare della produzione petrolifera: quella saudita è più che doppia rispetto a quella iraniana. Il confronto tra le due economie può diventare ulteriormente penalizzante per l’Iran se gli americani decidessero di imporre nuove sanzioni a Teheran.

I dati sulla potenza militare pendono dal lato iraniano per numero di soldati e in alcuni settori, ma i sauditi possono contare su un arsenale tecnologicamente più avanzato. Eppure i sauditi, che pure godono dell’appoggio aereo degli americani, non riescono neppure a battere la resistenza degli Houthi sciiti zayditi dello Yemen che di recente non solo hanno lanciato un missile vicino a Riad, con il probabile aiuto degli Hezbollah libanesi come addestratori, ma hanno sanguinosamente sfidato Riyadh facendo fuori immediatamente l’ex alleato ed ex presidente Abdullah Saleh quando ha annunciato di volere aprire negoziati con l’Arabia Saudita.

La guerra tra Riad e Teheran resta quindi sempre una guerra per procura e si potrebbe dire anche per fortuna: basti pensare a cosa potrebbe significare in termini di rifornimenti petroliferi sui mercati vedere in fiamme i terminal del Golfo.  (...)

Dopo la guerra irachena nel Golfo per l’occupazione del Kuwait, i rapporti tra i due paesi erano migliorati durante la presidenza di Hashemi Rafsanjani ma le tensioni sono riesplose con la caduta di Saddam nel 2003 e l’occupazione americana dell’Iraq. Questo è stato vissuto dai sauditi come un tradimento degli americani che hanno assegnato il potere alla maggioranza sciita emarginando i sunniti che prima controllavano la Mesopotamia ed enormi risorse energetiche. È stato così che l’Iran ha esteso la sua influenza tra gli sciiti dell’Iraq mettendo in agitazione il fronte sunnita e i sauditi che hanno sostenuto al Qaeda, il Califfato, Jabhat al-Nusra e altri gruppi jihadisti in funzione anti-iraniana e anti-Assad.

L’idea dei sauditi era quella di spezzare la cosiddetta Mezzaluna sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi: un asse strategico che dall’arco del Golfo, attraverso la Mesopotamia, arriva fino al Mediterraneo.

Questo è il motivo strategico per cui gli iraniani considerano le loro frontiere reali mille chilometri più avanti rispetto a quelle ufficiali sullo Shatt el-Arab, come ha del resto dichiarato pubblicamente il generale Qassem Soleimani

La guerra in Siria e la campagna saudita in Yemen contro gli Houthi sciiti sono gli ultimi due capitoli del faccia a faccia tra iraniani e sauditi. In Siria l’Iran vuole mantenere al potere Assad e ora, dopo l’intervento militare della Russia, ha accentuato la sua presenza con l’esercito regolare e i Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione. Riad continua a insistere perché Assad venga sbalzato dal potere ma di fatto, insieme alla Turchia e al fronte sunnita, ha perso questa guerra mentre non riesce a vincere neppure quella nel “cortile di casa”, in Yemen, una sorta di Vietnam arabo.

Per questo lo scontro si è fatto ancora più acceso: vincerà non solo chi ha più risorse, tenuta e alleati ma chi saprà attuare la strategia più sofisticata e lungimirante."


"(...) Alcuni (ma non tutti) sostengono che le proteste del primo giorno siano state organizzate dagli ultraconservatori, cioè quelli che fanno riferimento alla Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, l’autorità politica e religiosa più importante del paese. L’obiettivo, dicono alcuni analisti e giornalisti, sarebbe stato quello di indebolire il governo di Rouhani, da sempre in competizione con lo schieramento di Khamenei. Non ci sono prove certe che dimostrino questa tesi, ma Mashhad è una città dove gli ultraconservatori sono molto forti: dove per esempio è molto popolare Ibrahim Raesi, il candidato conservatore che fu battuto da Rouhani alle ultime elezioni presidenziali, a maggio, e che in passato accusò il governo di avere fallito nel mantenere le sue promesse di ripresa economica. Al di là di come sia iniziata tutta questa storia, nel giro di un giorno è andata fuori controllo. Le proteste si sono diffuse in tutto l’Iran e sono diventate qualcosa di diverso da semplici rivendicazioni economiche. Si sono cominciati a sentire slogan contro l’intero sistema della teocrazia islamica in vigore in Iran dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, e contro le decisioni delle élite politiche sia in politica interna che in politica estera. Per esempio si è urlato contro l’appoggio dell’Iran al gruppo estremista sciita Hezbollah e al presidente siriano Bashar al Assad. A Isfahan, città dell’Iran centrale conosciuta per il suo famoso “ponte dei 33 archi“, si sono sentiti i manifestanti urlare direttamente il nome di Khamenei, una cosa piuttosto inusuale. (...)


"Dopo due giorni di decise proteste contro il carovita in diverse città iraniane, oggi nel centro del Paese, a Doraud, nella provincia di Loerstan, si sono registrate le prime vittime: secondo quanto riferiscono fonti locali, almeno sei persone sono state uccise e diverse altre ferite quando la Guardia Repubblicana ha sparato per disperdere una manifestazion e; mentre a Teheran alcune centinaia di studenti sono scesi nelle vie intorno all’università unendosi alle contestazioni e nelle strade del Paese sono state attaccate banche e bruciati ritratti della guida suprema Ali Khamenei. Finora gli arresti hanno riguardato una cinquantina di persone. La Casa Bianca è intervenuta e ha avvertito le autorità di Teheran: «Attenti, il mondo vi sta guardando, gli iraniani ne hanno abbastanza della corruzione del regime e della dissipazione della ricchezza nazionale per finanziare il terrorismo». (...)


"(...) Sui social network sono rimbalzate le immagini delle proteste, registrate anche nelle città di Mashaad, Neyshabur, Kamshmar, Shahrud, Rasht, Tabriz e Isfahan. Secondo quanto filtrato su Telegram e Instagram, i manifestanti scandivano slogan contro il presidente Hassan Rohani o "Indipendenza, libertà, repubblica iraniana". Tra gli slogan anche quelli che sembravano inni in memoria dell'ultimo Scià di Persia, Mohamed Reza Pahlevi, rovesciato nel 1979 dalla rivoluzione islamica guidata dall'ayatollah Khomeini. Tra gli slogan più scanditi quelli contro il clero sciita, accusato di condurre una vita agiata e non in empatia con i problemi reali della società: "La nazione mendica, mentre il clero vive come Dio". Slogan anche contro le spese del regime per alcuni Paesi della regione mentre la popolazione attraversa difficoltà economiche. (...)


"(...) Borzou Daragahi, giornalista di BuzzFeed esperto di Iran, ha scritto che gli slogan che sono stati cantati ieri nelle piazze iraniane sono stati molto simili a quelli delle grandi manifestazioni del 2009, quando il regime di Teheran si trovò a dover affrontare il cosiddetto “movimento dell’Onda Verde”, organizzato dai riformisti iraniani dopo l’elezione a presidente di Mahmud Ahmadinejad. Quelle del 2009 furono le proteste più importanti e significative nella storia recente dell’Iran e furono seguite da una reazione repressiva da parte dello stato. (...)"


"(...) È difficile dire se oggi quall’aiuto ai rivoltosi arriverà, certo è che gli Stati Uniti hanno subito pubblicamente appoggiato la protesta contro gli ayatollah, in un gesto senza precedenti dai toni di Reagan. È lecito dunque pensare che nel caso in cui l’insurrezione prendesse piede gli Stati Uniti potrebbero assistere apertamente e concretamente i rivoltosi. Perché? Perché oggi l’espansione militare iraniana mette in pericolo gli interessi americani, sauditi e israeliani ed un cambio di regime è sicuramente più augurabile di una guerra classica nel Golfo, sia in termini di costi di vite umane sia banalmente in termini di budget, senza contare il rischio politico interno per un presidente che fatica a prendere in mano pienamente le redini del potere.
Eliminare i vertici dello stato iraniano potrebbe essere l’aiuto concreto degli americani alla nuova Rivoluzione iraniana, se e quando mai essa dovesse deflagrare. I metodi usati in altri luoghi del Medioriente (Siria, Libia, Egitto) non sono funzionali allo scenario iraniano, oltre ad essersi dimostrati fallaci ove già impiegati.
Anche per questo motivo è un errore paragonare i moti di piazza dell’opposizione iraniana alle primavere arabe. In tutte le cosiddette “primavere” la motivazione religiosa ed anti-laicista era un pilastro della rivolta, qui invece assistiamo allo scenario opposto, dove gli oppositori protestano per cercare di abbattere un sistema di potere politico-religioso che già controlla un intero paese.
L’attenzione del governo iraniano affinché la rivolta non diventi insurrezione è massima. Le forze di sicurezza hanno finora evitato di impiegare le armi e non fornire nessun martire alla piazza.
Nessuno oggi può sapere cosa accadrà in terra di Persia, ma di una cosa siamo sicuri: non sarà una primavera araba e nessuno degli attori stranieri che dovesse un domani intervenire attuerà l’obamiano motto del “Leading from Behind”.
Le dittature governano con il pugno di ferro, hanno potere di vita e di morte, ma ciclicamente (se non evolvono in una forma di governo più condivisa) sono destinate ad implodere nel caos e nel sangue.
L’Iran di oggi è un paese che può evolvere verso una forma di governo non teocratica oppure implodere per mano delle folle.(...)

giovedì 28 settembre 2017

Catalogna, Spagna, Europa

Il tema più interessante di questi giorni, visto sul lungo periodo, mi pare quello relativo a Spagna e Catalogna, e alla richiesta di indipendenza di quest'ultima rispetto a Madrid.

Quasi d'istinto, dopo la fine della Jugoslavia e viste le tensioni che in questo momento percorrono l'Europa, devo dire che mi sembra quasi assurdo pensare a un distacco elaborato in termini "indipendentistici"; ancor di più considerando il fatto che stiamo in qualche modo riscoprendo lo Stato come protagonista (assai acciaccato per la verità) dell'azione internazionale ed economica. 

Certo, questa riscoperta sa molto di "illusione" (vd. questo post del 2013), ma in un momento così delicato anche la sola percezione di una comunità coesa può essere fondamentale, per evitare di scivolare in situazioni inaccettabili e rischiose; e d'altro canto l'Europa è ancora creatura politica "acerba" per poter garantire al suo interno quel rimescolamento pacifico di confini che forse si potrebbe pensare positivo, in un mondo ideale.

Sicuramente la sfida delle autonomie "regionali" (intese in senso lato) è da raccogliere (per chi pensasse a facili paragoni, comunque, mi pare difficile collegare le vicende di Spagna e Italia, in questo senso), ma non sono accettabili scelte unilaterali. Forse la Spagna poteva fare di più prima in termini di ascolto? reagire in termini meno pesanti ora? Difficile dirlo. Le ragioni della legittimità politica e giuridica mi paiono per ora tutte a favore di Madrid.

Per farsi un'idea, segnalo alcuni articoli che mi sono sembrati ricchi di informazioni e considerazioni utili.
Buona lettura

Francesco Maria Mariotti

(Chi scrive è dipendente del Consiglio regionale della Lombardia; naturalmente le opinioni di questo post sono espresse a titolo puramente personale)

***

"Il País ha elencato e smentito 10 falsi miti sul referendum per l’indipendenza della Catalogna che dovrebbe tenersi domenica 1 ottobre: per esempio che la Spagna rubi i soldi dei catalani, i quali sarebbero più ricchi stando da soli, oppure che la Catalogna indipendente entrerà automaticamente nell’Unione Europea. Il País – che finora ha preso una posizione nettamente contraria al referendum, e vale la pena tenerlo a mente – ha selezionato questi falsi miti dagli slogan e dalla retorica politica usati dai leader indipendentisti catalani negli ultimi anni: alcuni si possono considerare falsi miti non perché c’è la certezza che non si realizzeranno mai, ma perché non c’è certezza che si realizzeranno, come invece sostengono i favorevoli all’indipendenza. Inoltre, questi non sono naturalmente gli unici argomenti dei favorevoli all’indipendenza della Catalogna. (...)

Gli indipendentisti sostengono che i quasi 40 anni di autogoverno – ovvero la decentralizzazione del potere disegnata con la Costituzione del 1978 – siano stati un fallimento; dicono che oggigiorno sarebbe in corso un nuovo processo di centralizzazione del potere, e che quindi l’autonomia debba essere trasformata in indipendenza.
Il País sostiene che non sia corretto parlare di fallimento. Nel 1979, un anno dopo l’adozione della Costituzione, fu adottato un nuovo Statuto di Autonomia della Catalogna che tra le altre cose stabilì «un sistema di autogoverno senza precedenti nella storia della Spagna»: fu recuperata la lingua catalana, il cui uso era stato vietato durante il franchismo, si fecero passi avanti sulla corresponsabilità fiscale e si ridistribuirono le competenze tra stato e comunità autonoma. Nel 2006 fu approvato un nuovo Statuto di Autonomia, che dava ulteriori poteri alla Catalogna, anche se poi molte sue parti furono dichiarate incostituzionali dal Tribunale costituzionale spagnolo con una sentenza molto contestata. Il País sostiene che nonostante quella sentenza, e nonostante le diverse leggi centralizzatrici introdotte dal Partito Popolare del primo ministro Mariano Rajoy dal 2012 a oggi, il grande livello di autogoverno delle comunità autonome spagnole sia una cosa ormai consolidata: migliorabile, ma comunque notevole se comparato con altri stati del mondo. (...)

Come scrive il País, non c’è ragione di pensare che la Spagna non sia uno stato democratico. In Spagna esistono lo stato di diritto e la separazione dei poteri; il paese fa parte di tutte le convenzioni internazionali sul rispetto dei diritti umani e le libertà politiche delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea; Freedom House ha dato un punteggio di 95/100 al rispetto dei diritti civili e politici in Spagna, lo stesso dato attribuito alla Germania. Né il governo catalano né uno dei gruppi indipendentisti della regione hanno mai fatto ricorso a tribunali internazionali per denunciare delle violazioni dei diritti, né tantomeno lo stato spagnolo è mai stato condannato per questo tipo di violazioni. (...)"




"(...) All’interno della Costituzione spagnola non esistono margini per tale cammino, e vista l’impossibilità di stabilire un dialogo “alla scozzese” o “alla québecoise” con il governo di Madrid, in mano al PP, partito con una concezione centralista dell’organizzazione dello Stato, gli indipendentisti catalani, divenuti via via più numerosi da uno zoccolo duro del 15 – 20% dell’elettorato negli anni della transizione democratica al quasi 50% di oggi, hanno cercato di definire un altro cammino: quello dell’autodeterminazione.

Da qui che la convocazione del referendum da parte della maggioranza indipendentista nel Parlament (les Corts) e la conseguente legge di secessione in caso di vittoria del sì siano state legittimamente annullate dalla Corte Costituzionale. È come se un comune o regione italiana dichiarasse unilateralmente la propria indipendenza: sarebbe atto giuridicamente nullo.

Per antipatico che sembri, e pur biasimando l’inerzia di un governo spagnolo che non ha messo in essere negli ultimi anni alcuna iniziativa di dialogo con i fautori dell’indipendenza, che non hanno mai usato metodi violenti nel difendere le loro idee, l’intervento delle forze dell’ordine di questi giorni è legale (con una riserva sui modi ed eventuali eccessi, che vanno valutati nello specifico), non è una violazione della democrazia come sostengono alcuni osservatori disattenti o di parte.

Si sarebbe dovuto evitare d’arrivare a questo punto di rottura? Assolutamente sì: i due governi, spagnolo e catalano, hanno completamente fallito politicamente.(...)

Il diritto all’autodeterminazione è riconosciuto dal diritto internazionale in caso di occupazione militare da parte di paese straniero, di esistenza di un sistema coloniale e dell’uso della violenza da parte delle forze occupanti. Di fatto, l’autodeterminazione è categoria giuridica nata col processo di decolonizzazione e definita in quell’ambito. Gli indipendentisti catalani fanno un solo esempio, quello del Kosovo, ma è oggettivamente forzato vista la situazione bellica prodottasi in quel caso (per inciso, la Spagna è tra i paesi dell’UE che non ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo per paura a eventuali usi strumentali di tale precedente).
In tutta onestà, è impossibile sostenere che condizioni paragonabili al caso del Kosovo si diano nella Catalogna di oggi.(...)

Il tema dell’eventuale adesione all’UE, presentata all’inizio dal fronte indipendentista come automatica (lasciamo la Spagna e rimaniamo nell’UE) rimane teorico al momento attuale, anche perché persino in caso di raggiunta indipendenza, la Catalogna dovrà richiedere l’adesione all’UE come nuovo membro, processo che richiede l’unanimità degli Stati Membri attuali. L’assenso del governo di Madrid rimarrebbe comunque indispensabile.
Anche un eventuale divorzio richiederà molti accordi specifici sui temi legati alla separazione, come la ripartizione dei beni pubblici, il pacchetto finanziario d’uscita, le regole sulla doppia cittadinanza.
Siamo comunque molto lontani da quel momento. Adesso è il momento della concitazione e dell’estremismo."​



"(...) Il nazionalismo catalano è un movimento complesso che alberga al suo interno anime diverse, moderate e radicali, laiche e cattoliche. La storia insegna che si è radicalizzato ogni qualvolta il governo di Madrid si è opposto alle sue richieste o ha cercato di reprimerlo. È un movimento democratico ed europeista che dal 2010 ha conosciuto una torsione populista e indipendentista, fino a quel momento opzione largamente minoritaria. Anche dopo il 2010 l’indipendentismo non ha mai ottenuto la maggioranza nel voto dei catalani, mentre nel 2015 l’ha conquistata in termini di seggi, fatto che ha consentito la formazione di un governo di coalizione che non ha altri punti in comune al di fuori del progetto indipendentista. La decisione di indire il referendum, e le modalità con le quali vi si è giunti, hanno inferto un grave vulnus alla Costituzione, intollerabile in uno Stato di diritto. Ma da qualunque punto la si guardi, non si può non riconoscere che la richiesta d’indipendenza costituisce un problema politico, da affrontare politicamente. Così fece la Corte Suprema del Canada nel 1998 che, di fronte al secessionismo del nazionalismo francofono, emise una sentenza nella quale si affermava che il Quebec non avrebbe potuto, anche in presenza di un chiaro risultato referendario, procedere alla secessione, ma allo stesso tempo che il governo non poteva rimanere indifferente davanti alla chiara espressione di una volontà secessionista. Da qui la necessità di avviare negoziati che ne fissassero le condizioni. Alla sentenza seguì una legge del Parlamento (Clarity Act) che stabilì di affidare alla Camera dei Comuni la determinazione dei quorum (di partecipazione e di voto) necessari a rendere valido il risultato del referendum. Forse non è un caso che laddove si è votato, più volte nel Quebec e più recentemente in Scozia, non sia stato il voto secessionista a prevalere.



L’ostinazione con cui Rajoy ha rifiutato ogni negoziato riflette una peculiare e diffusa cultura politica nella quale la mediazione (intesa nella versione nobile, di dialogo e approdo a soluzioni attraverso compromessi) non trova tradizionalmente posto. La recente politica spagnola offre al riguardo vari esempi: il rifiuto di avvicinare ai Paesi baschi i detenuti dell’Eta e di costruire percorsi per il loro reinserimento nella vita civile anche dopo la sconfitta dell’organizzazione terroristica; il fatto che non si sia mai approdati a governi di coalizione neppure di fronte alla crisi economica e dopo due elezioni che non hanno dato a nessun partito la maggioranza per governare; il «no è no» del segretario del Psoe, Pedro Sánchez, all’astensione sul governo Rajoy. Una rigidità di principi a cui non sempre corrisponde analoga fermezza sul piano etico, come i casi di corruzione hanno abbondantemente dimostrato.

Le forzature della legalità democratica da parte dell’indipendentismo e la rigidità di Madrid hanno confezionato una situazione che nessuno sa come andrà a finire. Quel che è sicuro è che non finirà l’1 ottobre e che dopo sarà peggio."


"(...) L’onda autonomistica si è gonfiata ed è giunta a un livello al quale sembra difficile fermarla. Il governo centrale ha prima chiesto e ottenuto una sentenza della Corte Costituzionale che dichiara illegale il referendum catalano predisposto per il 1 ottobre. Poi, è intervenuto perquisendo uffici, addirittura arrestando alcune delle autorità catalane, annunciando il blocco del trasferimento di fondi da Madrid a Barcellona. Mariano Rajoy, esponente del Partito popolare e Presidente del governo spagnolo (di minoranza poiché ha bisogno dei voti di altri partiti), vuole fermamente mantenere l’unitarietà della Spagna. Al tempo stesso, teme il contagio di una vittoria degli indipendentisti catalani su altre regioni del paese: le Canarie, la Galizia, i Paesi Baschi, l’Andalusia. Non è detto che gli indipendentisti catalani vincano. Infatti, la Catalogna ha, proprio grazie alle opportunità che offre, attratto molti immigranti dal resto della Spagna che il catalano probabilmente non l’hanno imparato, la cui storia e cultura sono sicuramente non-catalane, che non possono avere l’orgoglio dei catalani da sempre o da qualche generazione. Però, Rajoy e probabilmente con lui il resto della Spagna preferirebbero non correre il rischio di una sconfitta dalle conseguenze imprevedibili, ma neppure di una vittoria, che sarebbe comunque alquanto risicata, di coloro che desiderano rimanere con la Spagna. (...)"